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Mansardo
Salottino
Utente Attivo
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Inserito il - 27/12/2008 : 09:08:10
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Auguro a te che hai avuto la pazienza di arrivare fin qui un 2009 di salute e serenità affinchè tu possa realizzare alcuni tuoi sogni, ma non tutti perchè bisogna sempre conservare qualcosa da sognare.
Dr. F & Mr. M
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Thomas Kinkade, Stepping Stone Cottage |
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Marialuisa
Utente Master
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Inserito il - 27/12/2008 : 09:26:03
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Oh , se è vero , Mansardo ! I sogni sono quanto di più prezioso - misteriosamente - ci viene regalato o - volutamente - ci regaliamo e le cose preziose vanno assaporate a piccole dosi . Auguri anche a te , che le tue parole possano farci sognare ancora nel 2009. L.
Ps: se ti capiterà di passare dalle parti di Edo , auguri anche per lui .
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Mansardo
Salottino
Utente Attivo
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Inserito il - 30/12/2008 : 11:23:55
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| Marialuisa ha scritto: Ps: se ti capiterà di passare dalle parti di Edo , auguri anche per lui. |
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Thomas Kinkade, Stepping Stone Cottage |
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Tranquillo
Salottino
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Ironic Man
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Inserito il - 30/12/2008 : 13:54:44
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Questo bell'angolino mi era sfuggito!!!
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Paradisola
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Inserito il - 30/12/2008 : 15:09:34
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solo oggi mi sono accorto di questa discussione, mi ha fatto rallentare e "magicamente" rilassare..trascinerò con me le tue parole per il prossimo anno Mansardo..
Buon 2009 e grazie.
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Mansardo
Salottino
Utente Attivo
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Inserito il - 01/01/2009 : 22:01:31
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Benvenuti, Tranquillo e Domenico. E grazie.
Suite è un laboratorio di pensieri da condividere attraverso racconti, ricordi, testimonianze, memorie. Personalmente lo concepisco anche come luogo di sperimentazione di forme comunicative integrate (ad esempio, testo+immagini+musica oppure testo su sfondo).
Alla prossima.
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Mansardo
Salottino
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Inserito il - 05/01/2009 : 20:19:27
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Giulio Rapetti (Mogol) è una persona sensibile, leale, dal carattere dolce ma ruvido. Non è burlone e tantomeno credulone. Una decina di anni fa, subito dopo la morte del suo grande amico Lucio Battisti, scrisse il testo di una canzone per Celentano, L'arcobaleno.
Forse non tutti sanno che la genesi di questi versi è avvolta nel mistero e prende le mosse da due "messaggi" arrivati al paroliere: prima un articolo scritto dal direttore della rivista Diners Club all'indomani di un sogno nitido in cui Battisti gli indicava che il ponte tra noi e l'aldilà é l'arcobaleno, poi una telefonata (dalla Spagna) di una medium entrata in contatto con il cantante, che le avrebbe fatto estrapolare da un libro alcune frasi da riferire a Mogol affinchè scrivesse una canzone che avrebbe dovuto intitolarsi "L'arcobaleno". Una settimana dopo aver scritto il testo, infine, Mogol ha ricevuto un altro segno inequivocabile legato alla canzone ma non ha mai voluto rivelare di cosa si è trattato, limitandosi a dire testualmente "Se me lo raccontasse qualcuno, io non ci crederei".
L'arcobaleno.
Io son partito poi così d'improvviso che non ho avuto il tempo di salutare istante breve ma ancora più breve se c'è una luce che trafigge il tuo cuore L'arcobaleno è il mio messaggio d'amore può darsi un giorno ti riesca a toccare con i colori si può cancellare il più avvilente e desolante squallore Son diventato sai il tramonto di sera e parlo come le foglie d'aprile e vivrò dentro ad ogni voce sincera e con gli uccelli vivo il canto sottile e il mio discorso più bello e più denso esprime con il silenzio il suo senso Io quante cose non avevo capito che sono chiare come stelle cadenti e devo dirti che è un piacere infinito portare queste mie valige pesanti Mi manchi tanto amico caro davvero e tante cose son rimaste da dire ascolta sempre e solo musica vera e cerca sempre se puoi di capire Son diventato sai il tramonto di sera e parlo come le foglie d'aprile e vivrò dentro ad ogni voce sincera e con gli uccelli vivo il canto sottile e il mio discorso più bello e più denso esprime con il silenzio il suo senso Mi manchi tanto amico caro davvero e tante cose son rimaste da dire ascolta sempre e solo musica vera e cerca sempre se puoi di capire ascolta sempre e solo musica vera e cerca sempre se puoi di capire.
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Marialuisa
Utente Master
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Inserito il - 06/01/2009 : 09:50:59
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Vale la pena la morte se la vita vive appena
Ps :come non pensare all'eternità delle parole e della musica di Lucio Battisti ?
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Mansardo
Salottino
Utente Attivo
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Inserito il - 06/01/2009 : 10:11:20
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| Marialuisa ha scritto:
Vale la pena la morte se la vita vive appena
Ps :come non pensare all'eternità delle parole e della musica di Lucio Battisti ?
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Parole? Se non sbaglio, i testi glieli scriveva prima Mogol, alla fine Panella e, per una breve (per fortuna) parentesi, perfino la moglie.
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Thomas Kinkade, Stepping Stone Cottage |
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Marialuisa
Utente Master
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Inserito il - 06/01/2009 : 15:29:47
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| Mansardo ha scritto:
| Marialuisa ha scritto:
Vale la pena la morte se la vita vive appena
Ps :come non pensare all'eternità delle parole e della musica di Lucio Battisti ?
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Parole? Se non sbaglio, i testi glieli scriveva prima Mogol, alla fine Panella e, per una breve (per fortuna) parentesi, perfino la moglie.
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Qualcosa è rimasta sottintesa , puntualizziamo : come non pensare all'eternità nelle parole e nella musica "delle canzoni " di Lucio Battisti . Per carità , il poeta di quel felice connubio artistico era e resta Mogol .
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Mansardo
Salottino
Utente Attivo
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Inserito il - 07/01/2009 : 11:23:54
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C’è una vallata nascosta nel cuore della Sardegna, dove cielo e terra s’incontrano. L’uomo che non aveva mai preso l’aereo in vita sua si alzò dalla scrivania, afferrò la paletta e si mise il berretto da capostazione. Uscì dalla sua stanza e percorse lentamente l’ufficio senza badare a chi gli stava intorno. Il piazzale della stazione era deserto, solo la campanella faceva da contrappeso al silenzio. La giornata volgeva al termine ma il sole era ancora caldo. L’ombra del capostazione, immobile e fiera, fu avvicinata da quella dinoccolata di un cane troppo pulito e mansueto per essere randagio. L’uomo si chinò ad accarezzare l’animale che si fermò a scodinzolare per qualche istante prima di riprendere a vagare con vacillante convinzione in cerca di cibo.
La stazione, piccola e con la sorte già segnata dai piani di ristrutturazione dell’azienda, conservava con grande dignità i segni di un passato glorioso. I giardini raccolti, puliti e con le siepi ben curate, le panchine in legno appena verniciate, la facciata integra e carica dei fumi lasciati dalle locomotive prima e dalle littorine poi, la sala d’aspetto spartana con la vecchia biglietteria in disuso coperta da un cartellone con l’orario dei treni, le insegne sbiadite ma intatte, il selciato chiaro del piazzale innervato da marmo più scuro, i locali impolverati di un piccolo bar ormai diventato magazzino. Soltanto l’orologio del piazzale aveva smesso di funzionare, proprio quella mattina. Il capostazione lo guardò e si asciugò il sudore dalla fronte. Il treno tardava. Il capostazione sapeva di doverlo aspettare lì, come sempre, come milioni di volte nella sua vita passata nelle stazioni di tutta Italia, sotto lo sguardo della moglie affacciata alla finestra della cucina o sotto i bombardamenti dell’ultima guerra, spazzato dal vento e dalla pioggia, con la nebbia di gennaio o il caldo di ferragosto, a digiuno o dopo pasti consumati in fretta e mal digeriti, con il cuore leggero e con il cuore stanco. Una vita fatta di attese, di piazzali improvvisamente popolati da passeggeri in transito che corriere e treni a poco a poco si portavano via lasciando dietro di sé il silenzio della stazione e i suoi pochi abitanti, come la mareggiata che si ritira e lascia poche conchiglie sull’arenile. Una vita compilando registri e firmando moduli, quando ancora si sigillavano le buste con la ceralacca, si andava in bicicletta a spostare gli scambi ed i biglietti erano rettangolini bianchi di cartoncino rigido attraversato da una striscia colorata. Quando c’era il tempo ed il gusto di approfittare delle pause di lavoro per mangiare cozze crude appena portate da un macchinista, nascosti tra le cataste di traversine, armati di un limone e di un coltello.
Lo sguardo del capostazione fissava le rotaie lontane che parevano sbucare dagli alberi. Da lì sarebbe apparso il treno, era sicuramente questione di minuti. Per un attimo i suoi occhi guardarono il bosco dove tante volte era andato a caccia con i suoi tre cani ed un nipotino pelandrone che dopo pochi minuti doveva essere portato in spalla. Andare a caccia era un pretesto, come lo era andare a pesca con quel suo canottino arancione più adatto a schiacciare un pisolino che a depredare il mare. Lui, del resto, non sarebbe mai stato in grado di depredare quella terra dove aveva scelto di vivere senza esserci nato. Il sole nel frattempo stava tramontando. L’uomo abbassò lo sguardo distogliendo per un attimo l’attenzione dai binari. Fu proprio in quel momento che in lontananza apparve il muso della motrice. Il capostazione ebbe un sussulto lieve, si sistemò il berretto, impugnò bene la paletta e chiuse gli occhi. Quando li riaprì il treno era ormai in prossimità della stazione. Il suo ultimo treno. Gli parve bellissimo, rassicurante, definitivo. Percepiva ormai l’odore del motore caldo, il leggero tremore delle rotaie e l’inconfondibile sibilo dell’aria squarciata. Il convoglio, composto da pochi vagoni, aveva visibilmente rallentato per superare senza difficoltà gli ultimi scambi. Dai finestrini del primo vagone si agitavano senza fretta mani familiari. Il capostazione riconobbe la madre e due fratelli e rispose al saluto con compostezza. La campanella aveva smesso di suonare. Il treno ormai era fermo davanti al piazzale. Dietro la motrice il vagone degli affetti, quello dei sogni e quello dei rimpianti. Il capostazione si voltò indietro e riscaldò con un ultimo sorriso gli occhi della moglie che come sempre lo guardava dalla finestra della cucina. In quei pochi istanti avrebbe avuto tante cose da dire, da ricordare. I viaggi in lambretta su e giù per la Sardegna, i figli mai arrivati, le grandi paure di una vita, le tante soddisfazioni ricevute. Avrebbe voluto, ma non ci riuscì. Quando il sorriso restò senza luce, l’uomo rivolse nuovamente lo sguardo verso il treno che lo aspettava, mise la paletta sottobraccio e, aperto lo sportello del vagone degli affetti, salì senza esitazioni. La quiete della piccola stazione fu interrotta per un attimo dal pesante richiudersi dello sportello. Il sole ormai s’intravedeva appena dal profilo delle colline circostanti, gli ultimi lembi delicati del suo velo arancione coloravano il piazzale, attraversato proprio in quel momento dal cane che, appesantito dal pasto serale, degnò di una fugace occhiata il treno che stava per rimettersi in marcia. L’uomo, una volta salito a bordo, aveva smesso definitivamente i panni di capostazione per vestire quelli di passeggero. Si era accomodato vicino ai suoi cari e, con il capo abbandonato sul poggiatesta del sedile, guardava fuori dal finestrino. Le palpebre si erano fatte pesanti, era stanco ed aveva voglia di dormire. Il treno con un sussulto si mosse e ripartì. Lentamente superò gli scambi sferragliando quasi con leggerezza fino a quando, allontanatosi dalla stazione, prese progressivamente velocità e sparì all’orizzonte. Il sole era tramontato, il piazzale deserto, le imposte della stazione chiuse, il cane sazio e addormentato. Il filo dei ricordi aveva cominciato a tracciare il suo solco.
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Thomas Kinkade, Stepping Stone Cottage |
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Mansardo
Salottino
Utente Attivo
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Inserito il - 11/01/2009 : 11:20:44
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Una lettera amara. E' un racconto diverso dai miei soliti, lontano dalle ambientazioni a me care. E’ la storia di una donna. Una storia dura, con il suo continuo basculare tra cinismo e tenerezza, ingenuità e calcolo. Non so se sia il caso di parlare di lieto fine. Facendo finta per un attimo di cadere nel tranello di questa pessima traduzione di happy end, si può dire che se il fine giustifica i mezzi, qui il fine è lieto quanto lo sono stati i mezzi. Il racconto breve si intitola Cicatrici.
Egregio Presidente, sono una impiegata dell’impresa di pulizie che Lei ritiene essere sovradimensionata per le esigenze della sua società e, per questo motivo, ha deciso di mettere da parte. So bene come andranno a finire le cose. Il sindacato ribatterà che si devono garantire i livelli occupazionali, Lei insisterà sulla necessità di ridurre drasticamente il servizio e si arriverà al compromesso che si lavorerà meno, per lavorare tutte, oppure si salveranno soltanto la metà delle attuali dipendenti, ma con l’orario immutato. Qualcuna sarà prepensionata (non è il mio caso), qualcun'altra verrà collocata in cassa integrazione, magari a zero ore, altre ancora troveranno lavoro in imprese collegate. Chissà dove, chissà per quanto. Sicuramente molte di noi dovranno rivedere il bilancio familiare, perché non si potranno più permettere il lusso di contare su 800 euri al mese. Ecco, io potrei essere una di queste. Non mi spaventa, sono cresciuta dovendo affrontare quotidianamente mille difficoltà.
Sa Presidente, alle privazioni ci si abitua. Sin da ragazzina ho dovuto tirare la cinghia anche se, a dire il vero, una cinghia nemmeno ce l’avevo. Abitavo con mia madre e mia sorella più piccola in un quartiere fiorente e gonfio di speranze e promesse soltanto per due mesi ogni cinque anni, durante le campagne elettorali. Trenta metri quadri in tre. Mio padre lo ricordo appena, morì che avevo pochi anni. Si viveva della sua pensione di operaio, a cui si aggiungevano pochi spiccioli per l’accompagnamento di mia madre, non vedente. Spesso stavamo al buio, per risparmiare e perché mia madre della luce non sapeva che farsene. Io e mia sorella studiavamo al lume di candela. Siamo sempre andate d’accordo. La sera, mentre mia madre ascoltava la radio per addormentarsi, giocavamo al gioco dell’oca o a battaglia navale. Sono cresciuta senza PlayStation eppure ero felice. La TV arrivò in casa nostra quando un lontano zio si comprò un nuovo televisore a colori e ci regalò il suo vecchio 14 pollici in bianco e nero, con i canali che saltavano spesso e l’audio velato. Per noi l’arrivo della TV fu un evento emozionante, di cui ingenuamente ci vantammo anche a scuola. Ma fu anche l’inizio di un periodo molto doloroso.
Allora avevo diciassette anni, mia sorella due in meno. Lo zio di cui ho parlato venne a portarci la nostra piccola TV una domenica mattina. Non dovette suonare il campanello perché proprio in quel momento mia sorella teneva la porta di casa aperta per poggiare sul pianerottolo il sacchetto delle immondizie. Lui salutò ed entrò. Io in quel momento stavo facendo il bagno nella vasca piena di acqua calda e sali profumati. Me lo potevo permettere soltanto la domenica e volevo gustarmelo fino in fondo. Lui non era mai stato a casa nostra. Passò davanti al bagno proprio mentre io uscivo dalla vasca. La porta era aperta, come sempre. Quando si vive con una non vedente non si fa tanto caso a certi pudori. Io e mia sorella talvolta giravamo seminude per casa, senza alcuna malizia. Mio zio mi fissò per alcuni secondi, prima che riuscissi a prendere l’accappatoio e chiudere la porta. Qualche giorno dopo squillò il telefono. Rispose mia sorella. Era lui. Non ci girò molto intorno. Mi disse che molte mie coetanee potevano fare una vita più agiata della mia perché ogni tanto facevano compagnia a persone anziane e bisognose di intimità. Si lavorava poco e si guadagnava bene. Lui controllava e faceva in modo che non succedesse niente a nessuno e che gli incontri si svolgessero nella massima riservatezza e pulizia. Lo mandai a cagare. Non ero neanche sicura fosse davvero mio zio. Poche settimane dopo arrivò Natale. Un triste, tristissimo Natale. Anche mia madre ci aveva lasciato, i primi giorni di dicembre. L’unico reddito per me e mia sorella era ormai la pensione di mio padre. O meglio, quello che ne restava. Le prospettive dell’immediato futuro erano poco felici. Il giorno dell’Epifania “lo zio” chiamò ancora e, dopo le condoglianze, mi chiese se ero ancora arrabbiata con lui. Questa volta non gli sbattei il telefono in faccia. Gli incontri si svolgevano in un monolocale della costa, appartato, decoroso, abbastanza pulito ma con un forte odore di umido, arredato con gusto dozzinale e, date le circostanze, equivoco. I primi tempi lavoravo un paio d’ore una volta alla settimana, ben presto i giorni diventarono una decina al mese. Molti pensionati, qualche agente di commercio, turnisti, dipendenti in trasferta e militari. Si agitavano sul mio corpo acerbo per pochi minuti, dopo avermi toccato dappertutto rudemente, senza il minimo sentimento. Ricordo ancora l’alito puzzolente di tanti corpi sfatti, gli occhi impregnati di vino, le loro unghie sporche su di me. Ho visto tante cicatrici, tanti nei. Ho respirato tanto sudore e fumo di sigaretta. Alcuni clienti erano evidentemente abituati a certi incontri, altri invece recitavano un ruolo che non gli si addiceva, con frasi forzatamente volgari per darsi un tono. Magari a casa li stava spettando una figlia della mia età. La mia discesa all’inferno durò sei mesi. Un pomeriggio si presentarono in due, pieni di tatuaggi e di proposte insostenibili. Io, con la scusa di andare in bagno a lavarmi, scappai dalla finestra e corsi fino a sentire il cuore scoppiarmi in gola. Tornai a casa molto tardi, in autostop. Dopo due giorni lui mi telefonò. Mi riempì di insulti e, con mia grande sorpresa, mi disse che aveva già in mente di scaricarmi perché ero ormai maggiorenne, ma che un giorno l’avrei cercato io e mi avrebbe ripreso soltanto alle sue condizioni. Stavolta fu lui a sbattermi il telefono in faccia. Non l’ho più sentito in vita mia.
Qualche mese più tardi risposi ad un’inserzione sul giornale. Si trattava di un posto part-time di segretaria presso un’associazione di artigiani. Compenso da fame, tutto in nero, nessun contributo previdenziale, orari pesanti. Un ricatto per disperati, ma io ero disperata e accettai. La sede sociale era uno stanzino al piano terra di uno stabile fatiscente appena fuori città. Mi comprai un paio di pantaloni e un maglioncino dai cinesi sotto casa per assumere un aspetto dignitoso. Con un vasetto di fiori e due quadretti provai anche a rendere più grazioso ed accogliente l’ufficio così spoglio, striminzito e sperduto ma per me così importante. Il mio lavoro consisteva nel rispondere al telefono, spedire la corrispondenza e verbalizzare durante le riunioni. Per arrotondare la paga non affrancavo le lettere destinate ai soci e le consegnavo a mano. I soldi per i francobolli, tolte le spese per i biglietti del pullman, restavano a me. Fu proprio in occasione di una di queste consegne che, l’anno scorso, conobbi il proprietario dell’impresa di pulizie dove ho lavorato fino a oggi. Cercava nuovo personale e mi propose di fare un periodo di prova di tre mesi. Il resto della storia lo può intuire, Presidente.
Adesso Lei si starà chiedendo come mai Le ho raccontato tutte queste cose. Non si preoccupi, non intendo elemosinare una raccomandazione o chiedere la carità di una proroga dell’impiego. Il mio destino è affidato al gioco delle parti, ho un destino precario. Ricominciare non mi spaventa più. Ma ho una sorella più piccola ed ho promesso a mia madre, quando era in punto di morte, di vigilare su di lei. Questo pensiero mi ha sempre dato la forza di sopportare tutte le umiliazioni che ho dovuto subire e di maturare la convinzione di risparmiarle almeno a lei. Non ho altre pretese che proteggere la sua dignità. Ma lo sa che la settimana scorsa stavo pulendo la barca del titolare dell’impresa di pulizia ormeggiata al porticciolo e all’improvviso dall’imbarcazione accanto è uscito Lei con la sigaretta in bocca e un fascio di quotidiani sotto il braccio? Aveva un bel paio di occhiali da sole, pantaloncini e ciabatte. Non mi ha vista e per non metterLa in imbarazzo anche io ho fatto finta di niente. Vede Presidente, da quel giorno mi sono chiesta spesso dove avevo già visto la cicatrice che Lei ha sotto lo stomaco. Stanotte mi sono ricordata. Io e la sua cicatrice ci siamo conosciuti nel monolocale sulla costa. Lei non può ricordarsi di me, io invece fatico a non pensarci. Ma con un po’ di buona volontà potrei dimenticare. Perché esistono anche cicatrici che non sanno sanguinare. Con deferenza.
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Thomas Kinkade, Stepping Stone Cottage |
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Marialuisa
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Inserito il - 13/01/2009 : 17:34:57
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Sto piacevolmente ultimando il saggio di Monica Farnetti "Tutte signore di mio gusto " e cresce in me la convinzione che la scrittura femminile abbia la grande capacità di essere condivisione , empatia , di farsi portavoce di un comune sentire , desiderio assoluto di farsi altro da sè , diventare alterità insomma . La lettera che ci hai regalato non è scrittura femminile ma la sento tale e la persona descritta è diventata "signora di mio gusto".
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euneada
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Inserito il - 13/01/2009 : 18:14:22
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Mi rammarico solo di non aver scoperto prima questo luogo , questo giardino che è semplicemente meraviglioso. Ho letto avidamente , lo sguardo incollato alle immagini che scorrevano davanti agli occhi nel mio procedere . Sono passata dal sorriso che annuisce compiaciuto nei primi post , al pianto nella narrazione dell‘uomo rimasto bambino per passare infine allo stupore crudo e crudele per lo scritto finale.
Posso solo ringraziarti di tanta bellezza.
Ciao Euneada
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Mansardo
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Inserito il - 13/01/2009 : 19:42:46
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| Marialuisa ha scritto:
Sto piacevolmente ultimando il saggio di Monica Farnetti "Tutte signore di mio gusto " e cresce in me la convinzione che la scrittura femminile abbia la grande capacità di essere condivisione , empatia , di farsi portavoce di un comune sentire , desiderio assoluto di farsi altro da sè , diventare alterità insomma . La lettera che ci hai regalato non è scrittura femminile ma la sento tale e la persona descritta è diventata "signora di mio gusto".
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Lo interpreto come un complimento e te ne sono grato. E' la prima volta che scrivo provando a immedesimarmi in un personaggio femminile e, per di più, in un contesto difficile. Le tue parole mi confortano, il punto di vista delle donne è essenziale per capire se il filo psicologico della storia è credibile. E' vero, la mia non è scrittura femminile (e si vede).
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Thomas Kinkade, Stepping Stone Cottage |
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