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Fish
Utente Attivo
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Inserito il - 15/10/2006 : 17:14:38
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Sono nuovo di questo forum, però mi piacerebbe condividere con voi questo racconto che ho scritto qualche tempo fa. Spero vi piaccia. Lo posto a puntante, anche perché è lunghissimo. Ovviamente, teatro della vicenda narrata è il mio paese, Villacidro. Il tempo? Beh... un tempo imprecisato di inizio ventesimo secolo... Spero di non tediarvi. Nel caso, sarà sufficiente dirlo e non andrò oltre.
Prologo L’autunno timidamente cominciava a vestire dei suoi colori il paesaggio circostante Villacidro. Il piccolo centro, abbarbicato fra le due vette che sovrastavano il Campidano, Monte Omo e Monte Cuccureddu, ammiccava con le sue casupole di fango e paglia, dai tetti di tegole di terracotta rossa. Il campanile medievale di Santa Barbara, che dominava imperioso sulle povere abitazioni, rintoccava l’ora con le sue campane di bronzo, qualche anno prima donate alla piccola parrocchia dal Vescovo in persona. Villacidro era davvero un bel paesello. Composto da poco più di mille abitanti, costituiva un forte richiamo per i paesi circostanti. I suoi ricchi orti di ciliegi e aranci e i suoi uliveti producevano quanto di meglio quello scorcio di Sardegna sud occidentale potesse offrire allora. E tuttavia, il piccolo centro non viveva solo d'agricoltura: sulle sue montagne, oltre il Leni, e su quelle a nord verso Monte Margiani, i pastori villacidresi portavano le loro capre al pascolo, fra arbusti di lentischio e lecci secolari; e a est, oltre le ondulate colline che cominciavano a divenire pianura, le vacche, i buoi e le greggi di pecore, dominavano il paesaggio, alternandosi a campi di grano e distese di uliveti e mandorli, salvo qualche sporadica intromissione di sughereti che, incrinati e contorti dal vento di maestrale, erano stati un tempo gli unici dominatori della flora circostante. I villacidresi amavano il loro paese a imbuto. In una posizione sovrastante, era un intrico di viottoli sterrati e stradine di pietra che si arrampicavano nei pendii circostanti, per perdersi nei sentieri, tra fitti boschi di lecci rigogliosi che regnavano sulle loro addolcite pareti; oppure, laddove il collo dell’imbuto si stringeva, sfumanti verso l’interno, nella ricca boscaglia di Castangias, ove sgorgava una piccola sorgente che, divenendo un piccolo fiumiciattolo (il rio Fluminera), tagliava in due il piccolo centro pedemontano. La piazza di Santa Barbara era il centro del paese. A ridosso dell’imponente chiesa medievale e delle due chiesette commemorative dedicate alle Anime e alla Madonna del Rosario, v’era una piccola piazzola assai trafficata dal via vai quotidiano di donne che, piegate dalla fatica del bucato, tornavano dal Lavatoio con le ceste della biancheria sul capo, e di uomini che, altrettanto stanchi e logori per la dura giornata di lavoro, provenivano dalle campagne circostanti, sognando un ceppo e una cena calda. Oltre la piccola piazza, costruita con fitti mattoncini rettangolari e di fianco alla chiesa delle Anime e al Montegranatico, si apriva un altro ampio rondò: piazza Zampillo, la quale, tra le verdi fronde di imponenti alberi di tiglio, dominava lo scarno paesaggio con la sua fontana circolare e le sue panchine di legno ingrossato dagli acquazzoni invernali. Punto di incontro, in quella stagione tardo estiva, di vecchi e giovani, era circondata da consumati edifici di pietra e fango e dal piccolo rio Fluminera che separava la piazza dalla via Roma, la quale saliva, prima di proseguire più giù verso piazza Funtanedda, sulla piazza Frontera, dalle cui fitte scalinate si accedeva al vecchio convento dei mercedari, divenuto poi il Municipio. Ma è proprio andando oltre piazza Frontera, scendendo verso piazza Funtanedda, verso la periferia estrema di Villacidro, dove le case si diradavano, alternandosi sempre più frequentemente all’aperta campagna, agli orti di aranci e di ciliegi e ai non più infrequenti uliveti, che inizia la curiosa storia che vede protagonista una delle famiglie più in vista e benestanti del paese: i Dettori.
I La dimora dei Dettori, costruita cinquant’anni prima da Don Raimondo Dettori, ricco notabile cagliaritano che si era innamorato del piccolo paese alle pendici della catena del Linas, era una casa padronale di insolita bellezza. Sita oltre piazza Funtanedda, verso la zona chiamata 'De S’Asteria', per via della presenza di un edificio adibito a rifugio e fermata dei viandanti, era circondata da ampi giardini e folti aranceti, tutti di proprietà della benestante famiglia. Il tutto accadde in un giorno di fine settembre. L’autunno cominciava ad affacciarsi timidamente, intarsiando il cielo con le sue leggere plumbeità, mentre il sole s’intiepidiva e la vegetazione cominciava a perdere il caratteristico colore giallo bruciato dell’estate, per rinverdirsi prima del freddo invernale. Era il periodo in cui intere famiglie di contadini si recavano negli uliveti e iniziavano la lunga stagione dell’olio. Quel giorno, in casa Dettori, Caterina guardò di sottecchi la sorella, mentre nervosa si mordeva il labbro e con le mani si stropicciava il grembiule bianco ricamato con fitti disegni colorati di fiori e angeli, regalatogli il giorno della cresima dalla zia di Cagliari, Donna Rachele. “Davvero? E quando è successo?“ chiese la sorella, fissando la ragazza. “Due mesi fa!... Oh, Teresina!” Caterina, con le lacrime agli occhi, si buttò sulla ragazza, ed entrambe caddero sul letto ricoperto con una grossa e morbida coperta di cotone dai grossi quadri e rombi colorati finemente lavorata a mano. “Che cosa debbo fare?” “Dai… alzati! E cosa ne so io? Per me è tutto così ridicolo!” Caterina allora si alzò, si sistemò i folti capelli neri racchiusi accuratamente in una cipolla, e cercò di ricomporsi la lunga gonna di cotone nero, ornata con semplici disegni geometrici che richiamavano curiosamente quelli della coperta. “Oh, povera me!...” continuò a mugolare. “Sono una donna finita! Ti prego, sorella, aiutami!” Teresina, ancora seduta sul grande letto morbido, riempito di piume d’oca, sbuffò, scuotendo la testa ricca di folti capelli rossicci che contornavano un viso più allungato rispetto a quello di Caterina, ma non per questo meno bello. “Ti ripeto che la tua è una fissazione!” insistette. A quella considerazione, Caterina inorridì: il suo bel viso rotondo si trasformò come per magia in una maschera smorfiosa e stizzita. “Una fissazione? Fosse capitata a te!” sbraitò, indignata, mentre camminava nervosa avanti e indietro. In quell’istante, Donna Maria Spanu, con la sua mole imponente, passava per il corridoio attiguo alla camera delle due figlie. Gioiosa e pimpante come ogni mattina, bazzicava infatti per la casa linda e pulita, assaporandone la magnificenza e l’eleganza, grazie soprattutto agli arredamenti superbi importati direttamente dal continente. E tuttavia, quando il suo viso leggermente paffuto, sinonimo di un allegria e vitalità che solo Caterina aveva ereditato, passò dinanzi alla porta della camera delle due figlie, udendone l’animata conversazione, si contrasse incuriosito e dubbioso. Donna Maria si fermò senza indugio, e dopo aver scrutato il corridoio, fino alle strette scale di legno che portavano al pian terreno, per vedere se Lucia Musinu fosse nei paraggi, si accostò alla soglia dell’uscio, tendendo l’orecchio e giustificandosi che era suo dovere sapere che cosa combinassero le sue due bambine in quel giorno non andate a scuola. “Sono spacciata. Lo so!” diceva Caterina, piagnucolante, sempre più disperata per il suo pesante problema. “Ormai sono passati dei mesi da quando lui mi ha toccata… Ora non mi vuole più vedere! Dice che se insisto, lo dirà a mammài! Mi sento così male, sorella mia… Guarda il mio ventre… è così gonfio che…” All'udir quelle parole, il viso pienotto di Donna Maria attraversò i colori dell’arcobaleno, per sbiancare tutto d’un tratto e divenire cereo come quello dei morti. Con gesto teatrale, la matrona si portò la mano al generoso petto, e si allontanò barcollando e piroettando, cercando di farlo in silenzio, per non farsi scoprire. Tuttavia, non ci riuscì: cadde infatti sul vaso da notte ancora fuori dalla sua camera, rovesciandone il giallo contenuto. Il clangore del pregevole recipiente in ferrosmalto bianco destò le due sorelle che si affacciarono sul corridoio per capire cosa fosse successo. “Mammài! Cosa fai lì per terra?” chiese Teresina, stupita, correndo verso la donna a pancia all’aria e tutta inzuppata. “Come hai fatto a cadere?“ La donna slavata, tirata su a forza dalla figlia, si alzò, e cercò di sorridere nervosamente, evitando lo sguardo di entrambe. “Oh, piccole mie…” tentò di abbozzare, scuotendo la mano. “Nulla, nulla. Non ho visto… il vaso. Anzi…” E assumendo un aria incattivita, gridò: “Lucia! Lucia! Dove ti sei cacciata? Vieni immediatamente!” La serva, una donna curva, già avanti con l’età, arrivò quasi immediatamente, salendo le strette scale in legno in fondo al corridoio, che scricchiolarono sinistramente al suo passaggio pesante. Quando vide la chiazza sul pomposo tappeto che ricopriva le assi costituenti il pavimento del secondo piano della casa, e le grosse macchie sul vestito della padrona, intuendo cosa fosse successo, alzò gli occhi al cielo: “Oh, Signore misericordioso! Com’è successo?” Donna Maria, infastidita da quell’esclamazione melodrammatica della serva, assunse un'aria sdegnosa. “Dimmelo tu! Perché quel vaso è ancora qui?” Lucia stava per rispondere, quando s'accorse che la donna, volgendo le spalle alle figlie, le faceva dei gesti facciali del tutto incomprensibili. Allora indugiò un attimo prima di parlare, finché, non capendo nulla del modo strambo di comportarsi di lei, s'irritò e le disse in modo sarcastico: “Oh sa meri, avete qualche moscerino nell’occhio che vi disturba? Perché se è così, ve lo levo io!” E fece per allungare la mano verso il viso della padrona, quando Donna Maria l’allontanò con un gesto stizzito. “Ma che dici!” sbraitò la matrona. “Mettiti a pulire immediatamente questo scempio,” e rivolgendosi alle figlie ancora lì, con aria sommessa e gentile, disse loro: “E voi, piccoli fiori di mamma, tornate pure ai vostri studi che qui ci pensiamo io e Lucia. Su, andate…” Le due ragazze si guardarono dubbiose per quell’insistenza, alzarono le spalle e, come se niente fosse, tornarono in camera loro, rinchiudendosi nuovamente nei problemi di Caterina che non accennavano ad acquietarsi, nemmeno dopo quell’episodio. Quando la porta si serrò, il volto di Donna Maria assunse un'aria grave, quasi disperata. Prese la serva per il bavero del colletto e la trascinò nella propria camera da letto. “Oh, serva mia,” cominciò a lamentarsi sommessa. “Oh, serva mia che disgrazia che è capitata nella buona casa di Don Raffaele Dettori!” La serva non capì: dal suo sguardo smarrito, poteva intuirsi che pensasse che la propria padrona fosse uscita di senno per la brutta caduta. E quando Donna Maria l’ebbe lasciata, se ne allontanò: il puzzo, evidentemente, era troppo forte anche per lei. “Ma che dite?” si limitò a chiedere. “Siete sicura che la caduta non v’abbia danneggiato?” Donna Maria si sedette nello scranno, e si mise le mani sul volto. “Oh, Lucia, Lucia, la mia Caterina… La mia Caterina, che sventura che le è capitata! Povera figlia mia… disonorata da un uomo!” Lucia continuava a non capire. Quelle parole, dette da Donna Maria, erano davvero strane. Cercò una sedia per sedersi, ma nella bella camera da letto della padrona, le cui pareti erano ornate con una vivace carta da parati che riproduceva allegri disegni vittoriani, l’unica sedia era occupata proprio dalla matrona. Allora si rassegnò a rimanere in piedi, poggiandosi delicatamente sul comò sopra il quale troneggiava un grande crocifisso, riflesso nello specchio sovrastante. “Volete spiegarvi meglio, oh sa meri?” chiese. Donna Maria annuì. Smise di singhiozzare, e asciugandosi le lacrime che le avevano inondato il viso, raccontò quello che aveva udito. Quando ebbe finito, pure Lucia Musino cominciò a disperarsi. “Oh, povera Caterina,” gemeva la vecchia serva, adagiata sulla spalla di Donna Maria. “Chi sarà l’ignobile che ha potuto fare questo alla figlia di Don Raffaele?” “Dobbiamo scoprirlo, fedele Lucia,” disse Donna Maria, alzandosi e cercando di assumere un aria dignitosa. “Dobbiamo capire chi è che ha compiuto il misfatto, affinché ripari!” Lucia, rossa in viso, annuì, incurante del puzzo sempre più intenso che emanava dalle vesti di Donna Maria. “Si, si. Dobbiamo scoprire il colpevole. E’ necessario che paghi caro questo abuso! Al mio paese, Desulo, certe cose si riscattano con il sangue!” “Ma che dici, sciagurata!” la rimproverò Donna Rachele, spingendola via per tornare a sedersi sulla sedia. “E poi, dimmi, chi la sposa la mia Caterina in quello stato! Me lo spieghi?”
Continua...
Un uomo intelligente spesso si troverebbe in imbarazzo senza la compagnia di qualche sciocco!
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Modificato da - Fish in Data 15/10/2006 20:02:01
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Albertina
Salottino
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Inserito il - 15/10/2006 : 22:23:19
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La descrizione del paesaggio è suggestiva, in modo particolare per me che da bambina andavo spesso a Villacidro. Ho fatto quindi un bel tuffo nel passato, nei miei ricordi d'infanzia. La seconda parte del racconto scuote da quest'incanto e mette un po' d'agitazione per via della difficile situazione che si profila all'orizzonte e soprattutto per l'incidente di percorso in cui è incappata Donna Maria. Spero che tutto si risolva nel migliore dei modi, spero soprattutto di potermene accertare leggendo la prosecuzione del racconto. Ciao, a si liggi!
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Modificato da - Albertina in data 15/10/2006 22:32:47 |
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Pierì
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Inserito il - 15/10/2006 : 23:12:52
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Ciao Fish, complimenti per il racconto! ho rivisto il paese che conosco (sono nata a Vallermosa)e ho letto con piacere. A presto!
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Fish
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Inserito il - 16/10/2006 : 21:53:40
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... continua
II Le due figure uscirono che la luna era già alta nel cielo. La via Roma, silenziosa, era immersa nel buio, e così pure le rade case che si affacciavano sul strada sterrata che portava nel centro del paese. La dimora dei Dettori, dalla quale erano sgattaiolate via, fra tutte era la più imponente per bellezza e rifinitura. Tutti coloro che vi passavano di fronte, ne rimanevano impressionati, tanto era grande e bella. Donna Maria Spanu e Lucia Musinu camminavano svelte, mentre risalivano la via, facendo attenzione a non fare rumore. E dopo diversi minuti, si ritrovarono all’ombra degli edifici a ridosso di piazza Frontera nella quale, a un certo punto, s’erano affacciate. Ansimanti, guardavano il grande edificio del Municipio di Villacidro dinnanzi a loro, illuminato da alcuni lampioni a petrolio. In giro non c’era nessuno, e il silenzio era rotto solo dal costante latrare dei cani. “Ma dove mi stai portando, benedetta donna,” disse a un certo punto Maria Spanu, guardandosi attorno con nervosismo e circospezione. I suoi occhi, nella penombra, parevano due palle luccicanti che si alzavano e si abbassavano con il respiro affannato. “Da sa coga,” rispose Lucia, seria, mentre scrutava la via. “Dalla strega Giuannica Marajani…” “Questo l’ho capito,” ribatté Donna Maria. “Ma siamo sicuri che non sia malvagia? Non ho mica sentito parlare tanto bene di lei…” Gli occhi neri di Lucia Musinu baluginarono d’ira. “Macché malvagia!” fece, agitando la mano. “E’ un’amica mia. Mi deve dei favori, oh sa meri. Vedrete che lei ci aiuterà a scoprire il colpevole!” Il viso paffuto di Maria Spanu, alla luce lunare, assunse un’aria pallidamente dubbiosa. Pensava a come si era ridotta per aiutare la sua Caterina; per quell’angelo circuito dalle bramosie di qualche mostro. “Su, su, mia signora,” cercò di consolarla la serva, toccandole il braccio. “Vedrete che il colpevole lo troveremo…” “Chi è la!” gridò a un certo punto una voce d’uomo. Le due donne si spaventarono a morte, e andarono a ripararsi sotto l’arco d’un portone, dove la pozza d’ombra le nascondeva alla pallida luce notturna. Da lì scrutarono la piazza, e in lontananza, ai piedi delle scalinate di piazza Municipio, videro una tozza figura avanzare verso di loro. “Vi ho visto, eh! Venite fuori, e che San Sisinnio vi protegga se siete dei banditi venuti per rubare in casa della gente perbene!!!” . Fu allora che Maria Spanu riconobbe la voce di ziu Basiliu Marongiu, il loro pastore. Si rilassò e uscì dal cono d’ombra del vecchio portone di legno. “Sono io, Basiliu Marongiu. Non riconosci la moglie del tuo padrone?” Anche Lucia era uscita. “Basiliu! Non vedi che siamo noi, brutto scimunito?” L’uomo anziano, leggermente ricurvo, si raddrizzò un poco, e strabuzzò gli occhi, incredulo nel vedere la padrona e la sua serva in giro per il paese in quell’ora notturna. Immediatamente si buttò ai piedi della donna. “Oh, padrona mia, che sollievo, che sollievo: avevo il cuore che mi scoppiava… Sapete, io sono un povero vecchio e avevo il terrore che voi foste dei malvagi!!! Peggio… streghe! Maria Spanu toccò la spalla dell’uomo. “Deh! Che fai lì buttato? Capisco lo spavento, ma non è necessario che tu ti prostri ai miei piedi! Ziu Basiliu alzati…” L’uomo si alzò a fatica, aiutato dalla serva. “Si, si. E’ vero. Perdonate questo momento di codardia.” Poi, quasi resosi conto della stranezza dell’incontro, chiese: “Donna Maria, lo so che non sono affari miei, ma che ci fate in giro per Villacidro a quest’ora notturna?” e guardando la luna bella tonda e luminosa, aggiunse, rabbrividendo: “E per di più con quella così lucente nel cielo?” Donna Maria Spanu stava per rispondere, ma Lucia la precedette. “Non sono proprio affari tuoi! Piuttosto, tu che ci fai a quest’ora di notte? Non è che sei andato a ubriacarti da qualche parte? Se lo sa Don Dettori, per te sono guai!” Ziu Basiliu assunse un’aria offesa. “Ma che dici, serva? Io torno ora da Castangias, ho lasciato lì le capre a pascolare… E poi io non mi ubriaco!” “Su questo non possiamo certo metterci le mani sul sacro fuoco di Sant’Antonio Abate,” ribatté Lucia, rigida. Il suo vestito nero si confonde-va con le ombre che la circondavano. “Donna, attenta a quello che dici!” la minacciò Ziu Basiliu, additando-la, tremante. “Potresti pentirt…” “Smettetela!” intervenne Maria Spanu, stanca. “Per carità, ho il mio dramma per pensare a quello degli altri…” “Che dramma, padrona?” chiese il pastore, con aria visibilmente preoccupata e incuriosita allo stesso tempo. “Nulla che ti interessi,” lo rimbeccò Lucia, frapponendosi fra i due con la sua esile mole. “Oh, Lucia,” gemette Donna Maria Spanu, scansandola bruscamente, “lascia stare. Anche lui deve sapere. Forse ci potrà aiutare.” E raccontò la vicenda, sgranandola come un rosario, mentre Ziu Basiliu annuiva seriamente a ogni passaggio, strabuzzando gli occhi e agitandosi enfaticamente, come se fosse stato torturato dalle pulci. “Madre mia!” esclamò alla fine il vecchio pastore. “Poveri noi… Povero Don Raffaele!!! Che sciagura che gli è capitata!!! Oh, mia signora, che possiamo fare? Su, su… Che possiamo fare per rimediare a quest’offesa? Povera Caterina, stella lucente nel firmamento!” “E’ necessario, Ziu Basiliu, trovare il colpevole. Tu puoi aiutarci?” chiese Donna Maria. L’uomo assunse un’aria pensierosa, portandosi la grossa mano callosa sul mento ispido e sfuggente. “Credo proprio di no,” disse alla fine. “Io sono sempre in montagna…” “Va bene, va bene,” tagliò corto la donna, agitando la mano, consape-vole della inutilità del pastore. “Ora va, e acqua in bocca con Don Raffaele. E bada a te,” lo avvisò, minacciosa, “se parli, sono guai!” Il viso di Ziu Basiliu sbiancò: le minacce non gli erano mai piaciute. “Certo mia signora…” annuì. “La mia bocca sarà quella di un morto,” e aggiunse: “Piuttosto, se mi è concesso, voi, dov’è che andate?” “Da zia Giuannica Marajani,” rispose lei. “Cosa, cosa?” balbettò l’uomo, ancor più cinereo. “Ma… ma quella è una strega! Oh, ma in che guaio andate a cacciarvi! Permettetemi di farvi desistere,” e si aggrappò allo scialle di Donna Maria. “Non vi permetterò di andare lì!” Donna Maria si sentì imbarazzata nell’avere quell’uomo così accanto, con quell’odore di capra e… di vino. Cercava di fargli mollare la presa sullo scialle, e a ciò contribuì pure Lucia Musinu. “Ma che stai facendo? Lascia sa meri, Basiliu! E chiudi quella bocca maleodorante di alcool, che svegliamo tutti con i tuoi lamenti e il tuo puzzo!” L’uomo, incurante della richiesta e dell’offesa, insisteva. Alla fine, Lucia, visibilmente adirata, prese una pietra lì accanto e gliela diede sul capo. Il pastore allora si intirizzì, finché cadde a terra svenuto. “Oh, Santa Vergine! Lucia, ma che hai fatto?” Donna Maria si chinò sul poveretto, sul cui viso svenuto era rimasto impresso un sorriso ebete. Lo scrutò e vide che dormiva. “Meno male che è solo addormentato! Però è vero: puzza di vino!” Lucia sbuffò. “Lo so. E’ ubriaco fradicio.” Poi si girò e vide che alcune fioche luci cominciavano a illuminare diverse finestre lì nella piazza. “Padrona, dobbiamo andare. Qualcuno deve essersi svegliato, udendo la conversazione. Sentite i cani come abbaiano ferocemente. Su, su. Dobbiamo andare, e non preoccupatevi di lui. Quando si risveglierà, crederà d’aver sognato…”
III Gli stretti viottoli del paese, immersi nel buio, erano come cunicoli tetri e silenziosi, dove la vita pareva non fosse mai passata. Si inerpicavano tenaci alle pendici dei monti villacidresi, per dileguarsi nei numerosi sentieri rupestri che i ragazzini, durante la stagione calda, amavano percorrere in cerca di pinoli, i quali, una volta sgranati dalle ostili pigne cadute o rubate alle alte fronde, venivano portati alle donne del paese, che li utilizzavano per preparare su gatò: ghiotto dolce di zucchero caramellato del quale quegli stessi ragazzini andavano pazzi. Donna Maria e Lucia, guardinghe, attraversarono quei viottoli acciot-tolati, sperando ardentemente di non incontrare qualche altro tiratardi. Speranza, tuttavia, che fu mal riposta: una luce ondeggiante ancora in lontananza, infatti, stava venendo verso di loro. E con essa il vocio sommesso di due uomini dall’accento continentale. Questo suggerì immedia-tamente alle donne che si trattava di una coppia di carabinieri. “Ci mancavano pure questi!” esclamò spazientita Lucia, sbattendosi le mani sul grembiule e calcando ancor di più la cadenza tipica dei sardi della sua zona d’origine. Così, senza indugiare oltre, tirò la padrona dentro un vicolo. “Se ci vedono, altre domande… Oh sa meri, stiamo buone qui,” disse sussurrando. Donna Maria Spanu alzò le spalle. “Fai tu!” annuì, rassegnata. “Più vado avanti, più mi sembra di essere un bandito, Lucia mia. Non capisco perché siamo qui! Ma è contro la legge incontrare una coga?” “Certo che no!” rispose la serva, a voce bassa, scrutando le due alte figure sempre più vicine. “Ma è ben chiaro che se sanno che Donna Maria Spanu và da una strega, la gente comincerebbe a pensar male… E si sa come è facile che la gente parli male!!!... Ssshhh! Ora zitte!” I due carabinieri con la lanterna, erano a pochi metri. Silenziose, le due donne cercarono di appiattirsi, di modo che questi non le vedessero. E infatti i due, chiacchierando animatamente, passarono diritti, senza accorgersi delle figure nascoste nell’ombra del vicolo. Quando furono ben lontani, Lucia e Donna Maria uscirono allo scoperto, e parlando sottovoce cominciarono a discutere, mentre salivano la ripi-dissima via Coxinas, immersa nella notte; in lontananza si vedevano ondeggiare, alla lieve brezza autunnale, le sagome scure dei folti pini abbarbicati sull’imponente Monte Omo. “Ma io mi domando,” brontolava Maria Spanu, ansimando per la salita, “perché non abbiamo chiesto direttamente alla mia bambina? Sarebbe stato molto più semplice!” “Ma che dite!” sbottò Lucia per nulla stanca, nonostante fosse più vecchia della padrona. “La poveretta non deve sapere nulla! Bisogna capire in che stato si trova. Volete umiliarla? Qualcuno ha approfittato della sua bellezza e bontà! L’ha sedotta, e ora è necessario proteggerla. Soprattutto, è necessario proteggere il buon nome dei Dettori in Villacidro…” “Ma come?” chiese Donna Maria, sempre più perplessa. “Come potrà aiutarci una strega? Dio ci punirà per esserci rivolte a una serva del diavolo!” “Macché, macché! Vedrete! Vedrete!” rispose Lucia Musinu che, dopo essersi interrotta in un attimo di assortimento, riprese: “Prima di tutto,” sogghignò, “ci dirà chi è il criminale che ha fatto questo. Poi ci suggerirà che provvedimenti prendere!” E guardando una casetta isolata, con una fioca luce ancora accesa, aggiunse: “Ecco la casetta di Giuannica Marajani… Sbrighiamoci, oh sa meri, che la strega ci aspetta!” L’edificio basso era davvero povero: fatto decenni prima con mattoni di fango e paglia, cominciava a mostrare i segni della decadenza. Il tetto, in tegole rosse, poi era decisamente danneggiato, e si intravedevano già alcune falle, coperte alla belle e meglio con delle vecchie canne ammuffite legate fra loro con della raffia scura. Le due donne si avvicinarono alla porticina in legno consunto e batterono sull’anello arrugginito. Mentre attendevano, immerse nel silenzio del paese addormentato e illuminato spettralmente dalla fioca luce della luna, rabbrividirono per la brezza che soffiava a quell’altezza. L’autunno era ormai alle porte, e di lì a qualche mese, l’inverno, che si preannunciava assai rigido, sarebbe arrivato con le sue piogge e i suoi venti freddi, se non anche con la sua neve. “Chi è?” fece, a un certo punto, una vocina arcigna dall’interno della catapecchia. “Se siete anime dannate, andate via! Io non vi posso aiutare!” “Siamo noi, Giuannica!” fece, con voce sommessa, Lucia Musinu. “Facci entrare. Qui comincia a far freddo…” Ci fu il clangore del chiavistello che girava, poi la sagoma di una vecchietta, vestita completamente di nero, con il fazzoletto che gli copriva il capo, si parò davanti alle due donne. “Ah, sei tu, Lucixedda. Entra,” e guardando la donna che stava con lei, aggiunse: “Voi siete Donna Maria. Bene, bene,” ridacchiò. “Per voi ho delle sorprese!!!” Donna Maria rabbrividì. Cosa intendeva con quelle parole, la vecchia megera? Ma in che razza di posto l’aveva portata Lucia?
... continua...
Un uomo intelligente spesso si troverebbe in imbarazzo senza la compagnia di qualche sciocco!
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Modificato da - Fish in data 16/10/2006 22:58:25 |
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Ela
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Inserito il - 19/10/2006 : 22:04:57
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Dai Fish!!! Non ci lasciare per lungo tempo....devo sapere la fine della storia!
C'esti un'isola in su Mediterraniu aundi s'aria fragada de mari,de terra e de mirtu.....esti sa Sardigna......
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Albertina
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Inserito il - 19/10/2006 : 22:19:45
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Ho la mezza idea che non sia proprio un mostro il futuro papà. Magari questo non lo sa nemmeno la strega! Dico bene, Davide? Dai, però adesso non proseguire senza rispondermi...dimmi almeno se sono sulla buona strada!!!
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Fish
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Inserito il - 19/10/2006 : 22:36:56
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Ho deciso di postare un capitolo per volta. I capitoli sono dieci e ne ho già postato quattro. Fate i conti...
... continua...
IV Basiliu Marongiu si ridestò, aiutato da alcune persone che avevano udito gli schiamazzi. “Ehi, Basiliu, ci senti?” L’uomo aprì gli occhi, e subito sentì un forte cerchio alla testa e un dolore sulla nuca. Se la toccò, scorgendovi un bernoccolo. Cercò la berritta, e la trovò lì affianco. Imprecò, guardando chi l’avesse aiutato. “Ma si può sapere cosa ti è successo?” disse uno. “Certamente ha bevuto,” rispose l’altro, ridacchiando. “Non senti l’odore di vino che gli esce dalla bocca?” Basiliu, intanto, si era alzato e spolverava il capello, cercando di ripararsi dalla luce della lampada a olio che i due gli puntavano addosso. “Ma perché non vi fate i fattacci vostri e tornate a dormire?” ringhiò, stizzito. “Ai miei affari ci penso io!” “Si, si, Basiliu,” rise uno. “Se lo scopre Don Raffaele, sono guai per te! In quel caso si che sono affari tuoi!” Il vecchio mugugnò e, claudicante, si allontanò da quei due stolti e dalle loro illazioni, cercando di ricordare cosa gli fosse successo. Mentre scendeva per la via Roma, se ne ricordò. Allora accelerò il passo, finché non si mise a correre verso casa di Don Raffaele. La luna era alta nel cielo, ma avrebbe trovato modo di sapere se avesse sognato o meno, se quello che ricordava fosse frutto dell’alcool, oppure no. Nel primo caso, avrebbe fatto giuramento solenne alla Madonna del Carmine di non bere più. Quando arrivò dinanzi alla casa, aprì il portone. Il cane, Lioi, non abbaiò, riconoscendolo. Il piazzale era silenzioso, e dalle finestre al secondo piano non filtrava alcuna luce. Erano tutti addormentati. Doveva trovare un modo per svegliare i Dettori: solo allora avrebbe potuto capire se avesse sognato. Così, sempre con il dolore che gli pulsava nella testa, si guardò attorno. Alla fine trovò la soluzione: andò da Lioi, e gli diede un forte calcio nella coscia, unendo così l’utile alla vendetta per un morso che si era beccato l’anno prima. L’animale, al forte dolore, cominciò a guaire e poi ad abbaiare ferocemente. Immediatamente le luci si accesero, e la figura imponente di Don Raffaele, una pozza leggermente scura contro lo sfondo baluginante della camera, si affacciò un istante dopo. “Chi è là?” urlò con la sua voce grossa. “Sono io, Don Raffaele,” rispose Ziu Basiliu, togliendosi il capello e scrutando l’immagine del padrone di sottecchi. “Perdonatemi, sono entrato e non mi sono accorto del cane; gli ho pestato la zampa!” “Sei un idiota, Basiliu! Che cosa ci fai a quest’ora a casa mia? E dove hai lasciato le capre?” “A Castangias, oh su meri… Stanno pascolando allegramente alla luce della luna. Non vedete che bella luna alta e piena che abbiamo?” Don Raffaele bofonchiò qualcosa, guardando il cielo limpido. Infine disse: “Non mi hai risposto: cosa ci fai qui!” Intanto che Ziu Basiliu ci pensava, dalla finestra affianco, si affacciarono altre due figure: le due figlie di Don Raffaele. Allora, il vecchio pastore guardò la sagoma riconoscibile del viso di Caterina e deglutì: povera piccola, aveva pensato, così giovane… Alla fine trovò la scusa: “Sono venuto a prendere la monciglia… L’ho lasciata qui, da qualche parte...” Don Raffaele imprecò, e agitando il braccio gridò: “E va bene, va bene, Basiliu. Ma stai più attento! Qui c’è gente che dorme!” Il vecchio pastore non si fece sfuggire l’occasione: “Oh su meri,” disse, prendendo coraggio, “riferisca a Donna Maria di perdonarmi del rumore,” e rivolgendosi alle ragazze: “Anche voi, fiori splendenti, perdonate questo vecchio pastore!” Le ragazze risero e annuirono. “Non preoccuparti Ziu Basiliu,” risposero all’unisono, “noi non ci siamo offese!!!” All’udire le voci delle figlie, Don Raffaele si affacciò meglio e guardò la finestra affianco. “E voi che ci fate alzate?” le rimproverò, agitando il braccio. “Andate a coricarvi, e lasciate che noi uomini si risolvano questi problemi da soli. Su! Andate!” Le ragazze a quell’ordine imperioso si ammutolirono e rientrarono immediatamente, chiudendo la persiana. Intanto, Don Raffaele guardò nuovamente in basso, e vedendo ancora il profilo di Basiliu Marongiu, disse: “E tu, ancora qui? Vai che le capre ti aspettano!” e rientrò, chiudendo anch'egli la persiana della propria camera. Ziu Basiliu attese un attimo. Se non accadeva nulla, voleva dire che si era sognato tutto. In quel caso, avrebbe mantenuto fede al patto. E ciò gli dispiaceva assai. Fu in quel momento che, dopo un gemito soffocato, la finestra della camera dei Dettori si spalancò nuovamente. “Basiliu, pastore mio!” urlò Don Raffaele, con voce inebetita. “Donna Maria non è qui!” “Ah, allora avevo visto giusto!” esclamò, soddisfatto Ziu Basiliu, rimangiandosi la promessa di non bere più; la Madonna del Carmine poteva aspettare. “Che cosa vai cianciando?” replicò sospettoso Don Raffaele. “Mi pareva di aver visto Donna Maria e la serva, Lucia Musinu, andare per strade, poco fa…” e agitò il braccio in direzione di piazza Frontera. “Ma che dici?” sbraitò allora il padrone. “Guarda che se hai bevuto, Basiliu…” “Ma siete tutti fissati, oh su meri! Ma chi vi dice che io bevo?” strepitò con aria offesa. “Si dice, si dice!” annuì irritato Don Raffaele, che aggiunse: “Aspetta lì, che ora scendo…“ Con quelle parole scomparve al di dentro. Ziu Basiliu rimase in attesa, notando che la luce della camera delle figlie dei Dettori si era accesa nuovamente. Cominciarono a sentirsi una serie di discussioni concitate, nelle quali erano riconoscibili le voci delle due ragazze e dell’uomo. Non passò che un attimo, che la porta d’ingresso si aprì dinanzi a Basiliu. Il padrone uscì, vestito di tutto punto. “Basiliu, vieni fuori con me,” tagliò corto, prendendo il vecchio per un braccio. “Le mie figlie non devono udire nulla di questa storia!” Il pastore annuì, ed entrambi gli uomini uscirono per strada, allontanandosi di una decina di metri, verso un grande albero di Cigraxia che delimitava un aranceto. Quando furono sicuri che nessuno, nemmeno a quell’ora notturna, avrebbe potuto udirli, cominciarono a parlare. “Ora dimmi quello che sai…” gli fece Don Raffaele. “E bada di non tralasciare nulla.” La sua voce raschiata e grossa assunse un’aria decisa e minacciosa allo stesso tempo. “Non si è mai visto che una signora andasse in giro per le strade di paese a quest’ora notturna!” sbottò. Basiliu annuì, visibilmente intimorito e dubbioso se avesse fatto la cosa giusta. “Si… Si… Oh su meri, le ho viste. Erano in piazza Frontera… Le ho incontrate lì… Si muovevano come ladri, e mi sono spaventato a morte!” Don Raffaele annuì, e intuendo la reticenza del pastore, insistette: “Ebbene? Cosa ti hanno detto? Parla!” “Nulla… Nulla.” Basiliu scosse la testa. “Oh! Cioè quasi nulla…” “Ho detto di parlare!” Don Raffaele, più alto e robusto di Ziu Basiliu, prese quest’ultimo per il bavero del colletto sudicio. “Non fare il riottoso o ti spedirò a pascolare le capre a Monti Mannu per un mese intero!” E subito dopo lo lasciò, storcendo il muso per il pesante alito avvinazzato. Ziu Basiliu, non badando alla faccia disgustata del padrone, si ricompose e raccontò il fatto, omettendo però di parlare di Caterina. Aveva timore di Don Dettori, ma di più ne aveva di Donna Maria. Se avesse raccontato pure il dramma della figlia dei due, Donna Maria gliel’avrebbe fatta certamente pagare con due mesi di isolamento sui monti. Dunque, tra il vedere e il non vedere, era meglio tacere: se qualcosa doveva essere detto, sarebbe stata Donna Maria a farlo. Non lui, povero pastore di montagna. Le parole di Ziu Basiliu lasciarono di stucco Don Raffaele Dettori. “Ma sei sicuro?” chiese, dubbioso. “Certo che si, oh su meri. Mica ho avuto le traveggole!” Don Raffaele si portò le mani nei folti capelli brizzolati. “Oh, che disgrazia! Mia moglie sotto il giogo di una strega… Ah, ma io lo sapevo che lo era! Eccome se lo sapevo!” “Ma di chi parlate, oh su meri? Di Giuannica Marajani?” “E di chi se no?” replicò Don Raffaele, seduto chino su un masso, ai piedi del grande albero le cui fronde frusciavano alla lieve brezza notturna. “E di chi se no, se non di quell’arpia?” “Macché! Quella è tutto, ma non è una strega!” ribatté Ziu Basiliu, sottovoce, fingendo di non credere alla fama della vecchia megera. “No,” rivelò in un atteggiamento di cospirazione, “quella pericolosa, oh su meri, è sa strangia… Lucia Musinu!” Dicendo quel nome, rise sotto i baffi: la vendetta si stava consumando. “Lucia Musinu? Ma che vai dicendo!” esclamò Don Raffaele, incurante del fatto che qualcuno potesse davvero sentirlo. “Mi è sempre parso che fosse una brava serva…” “Si, si… Davanti!” annuì solenne Ziu Basiliu, con tono di chi sa il fatto suo. “Ma dietro… Dietro tramava la conquista del cuore di vostra moglie già da parecchio! E dobbiamo fermarla, o arriverà pure ai vostri due angeli…” Don Raffaele deglutì. Effettivamente, convenne tra se, quella donna era sempre stata un po’ troppo scorbutica e irriguardosa nei suoi confronti. Ora finalmente capiva il perché… Oh se lo capiva. “Basiliu, tu sai dove abita Giuannica Marajani?” chiese, deciso. Ziu Basiliu cercò di trattenere a stento il sorriso di soddisfazione. Lucia Musinu aveva le ore contate. “Si, oh su meri, lo so,” disse in tono grave. “Se ci muoviamo, in dieci minuti siamo lì. E forse faremo in tempo a salvare l’onore di vostra moglie!”
... continua...
Un uomo intelligente spesso si troverebbe in imbarazzo senza la compagnia di qualche sciocco!
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Modificato da - Fish in data 19/10/2006 22:44:56 |
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Ela
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Inserito il - 19/10/2006 : 22:56:41
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Aspetterò pazientemente il prossimo capitolo!!!!!
C'esti un'isola in su Mediterraniu aundi s'aria fragada de mari,de terra e de mirtu.....esti sa Sardigna......
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Albertina
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Inserito il - 20/10/2006 : 21:12:54
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I conti sono fatti, Davide: altri sei capitoli. Però tu non hai risposto alla domanda che ti ho fatto. Mi tieni sulla corda? Avanti, posta il V capitolo.
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Fish
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Inserito il - 20/10/2006 : 21:14:55
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Citazione: Messaggio inserito da Albertina
Ho la mezza idea che non sia proprio un mostro il futuro papà.
Diciamo che sei sulla buona strada... Ma il racconto si evolverà in una particolare maniera...
Un uomo intelligente spesso si troverebbe in imbarazzo senza la compagnia di qualche sciocco!
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Albertina
Salottino
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Inserito il - 20/10/2006 : 21:25:14
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L'avevo detto io! Comunque il racconto è bello e scrivi bene. Complimenti!
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Ela
Moderatore
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Inserito il - 20/10/2006 : 23:02:23
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Citazione: Messaggio inserito da Fish
Citazione: Messaggio inserito da Albertina
Ho la mezza idea che non sia proprio un mostro il futuro papà.
Diciamo che sei sulla buona strada... Ma il racconto si evolverà in una particolare maniera...
Un uomo intelligente spesso si troverebbe in imbarazzo senza la compagnia di qualche sciocco!
secondo me la figlia non era incinta ...è stato tutto un equivoco......sbaglio????
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Fish
Utente Attivo
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Inserito il - 21/10/2006 : 09:31:14
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... continua...
V Nella casa dei Dettori, le due figlie di Don Raffaele e Donna Maria Spanu non riuscivano più a prendere sonno. Così, mentre la notte trapuntata di stelle, ammantando quello scorcio di Campidano e i monti a ridosso dei quali il piccolo paese era adagiato, cullava i suoi abitanti nel sonno, le due ragazze discutevano animatamente. “Che si fa?” chiese Teresina, visibilmente preoccupata. Caterina, morsicandosi il labbro e attorcigliando nervosamente un lembo di vestaglia, ferma sulla porta, alzò le spalle. “Non lo so…” e aggiunse: “Ma cosa sta succedendo, Teresina? E dove sono andate mammài e Lucia?” “Non ne ho idea,” rispose la sorella, mentre girava nella stanza visibilmente agitata. E’ un mistero anche per me!” Caterina annuì. “Oh, poveri noi… Prima il mio problema!…” “Ancora con quella storia!” sbottò Teresina, spazientita. “Abbiamo ben altre cose a cui pensare ora,” e mentre lo diceva, lo sguardo le cadde sul comò. Si avvicinò perplessa, scorgendovi un biglietto della madre: quella calligrafia arricciata e tremula era certamente sua, anche perché non poteva essere diversamente, visto che Lucia Musinu non sapeva scrivere. Lo lesse attentamente, mentre Caterina le si mise dietro la spalla. Quando finì, lo posò nuovamente sul comò e fece un sospiro di sollievo. “Bisogna avvertire babbài,” disse, sorridente. “Bisogna dirgli che mammài e Lucia Musinu si sono recate a casa di Raimonda Locci per assistere la figlia partoriente… Povero babbài! Mammài non voleva disturbarlo mentre dormiva e vedi cosa sta succedendo?” Caterina si morsicò nuovamente il labbro. “E come facciamo ad avvisarlo? Non vorrai mica uscire di notte!” Teresina guardò la sorella dritta negli occhi, facendole capire che era necessario farlo. Caterina, allora, comprese che non ci sarebbe stata discussione. “E va bene,” si limitò a bofonchiare, chiaramente contrariata. Uscirono avvolte nei rispettivi scialli. Con fare furtivo, si inoltrarono nella via Roma, risalendola fino a piazza Frontera. Quando vi arrivarono, la piazza era deserta e male illuminata dalla luna. L’aria era spettrale, e il silenzio che aleggiava era interrotto solo dal solito latrare dei cani e da qualche zuffa fra gatti, che si rincorrevano nei cornicioni e nei muretti. Intanto, la brezza del vento autunnale soffiava lieve, spazzando via mulinelli d’erba e qualche foglia secca. Le due ragazze si guardarono attorno, nella speranza di vedere il padre e il pastore, i quali, invero, erano letteralmente svaniti. Allora, rendendosi conto di ciò, non indugiarono oltre: lasciarono la piazza e si diressero verso il grande sagrato dello Zampillo; e fu lì che videro i due uomini dirigersi, a passo veloce, verso viale Don Bosco. “Andiamo!” esclamò sottovoce Teresina, strattonando la sorella. “Eccoli! Dobbiamo raggiungerli!” “Ma dove vanno?” chiese Caterina, mentre seguiva la sorella. “Non ne ho idea,” rispose Teresina che accelerava il passo. “Non ne ho proprio idea…” I due uomini, inconsapevoli d'essere seguiti, voltarono per la via Funtana Brunda, superando il piccolo spiazzo, dove una fontana quadrangolare in granito, eruttava acqua in gorgoglii sonnolenti. “Ecco che hanno girato, “disse Teresina alla sorella. “Sbrigati che li raggiungiamo!” Ma proprio quando erano ormai lontane una trentina di metri dall’incrocio, videro i due uomini sbucare nuovamente sul viale. Per evitare di gridare, accelerarono il passo per raggiungerli, ma i due, che non le avevano viste, si allontanarono di gran fretta, dirigendosi verso Castangias. Le due ragazze li seguirono con il fiatone, fino alla fine del viale. Erano troppo veloci per i loro piedi. E quando pensarono di raggiungerli, perché i due avevano rallentato per poi fermarsi, si bloccarono di colpo, vedendo dove avevano bussato. Quella era la casa di Salis Graziedda, una conosciuta meretrice villacidrese. “Oh mio Dio!” gemette Teresina, visibilmente allibita, frenando la sorella. “Oh mio Dio, Caterina! Nostro padre! Oh, povera mammài!… Altro che preoccupato! Quel filibustiere ha approfittato della situazione! Era tutta una messa in scena architettata con quell’ubriacone di Ziu Basiliu!” Intanto i due uomini attendevano che la donnaccia aprisse. E mentre aspettavano, parlavano sottovoce. “Giuanni, ma sei sicuro che non ci ha visto nessuno? Se mia moglie lo scopre, sono guai!” fece il primo. “Macché,” lo rassicurò l’altro. “Quei due che stavano salendo in Funtana Brunda erano troppo occupati a chiacchierare tra di loro!... Franciscu, stai tranquillo!” e gli diede una pacca sulla spalla. Franciscu annuì. “Ho riconosciuto Basiliu Marongiu, il pastore di Don Raffaele Dettori. Ma l’altro non l’ho visto bene...” “Non l’ho visto bene nemmeno io. Questa è la sua berritta! Dovremmo chiedere a Ziu Basiliu. Magari, quando lo pescheremo in qualche bettola,” e sghignazzarono. In quel momento il chiavistello si aprì, e una giovane donna malvestita, con una candela, illuminò i visi dei due. Li squadrò un attimo, poi disse, indifferente: “Ah! Siete voi. Entrate.” Le due ragazze, scosse, osservarono i due uomini entrare nella casa. Disperate, tornarono indietro, meditando il da farsi. E mentre ripercorrevano la via, notarono in alto nel cielo un corvo gracchiante che sorvolava il paese. Teresina strattonò la sorella, indicando il volatile e facendole capire che quello era un segno infausto: il padre andava a donnacce e ora avrebbero dovuto decidere che fare. Dirlo alla madre o nasconderglielo?
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Modificato da - Fish in data 21/10/2006 09:37:55 |
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Ela
Moderatore
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Inserito il - 21/10/2006 : 09:35:55
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sono sicura di essere la prima a leggere il nuovo capitolo...la cosa diventa sempre più avvincente...
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Fish
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Inserito il - 22/10/2006 : 10:59:22
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... continua...
VI
La casa di Giuannica Marajani era una vera e propria catapecchia. Donna Maria quando vi entrò, preceduta da Lucia Musinu, storse il muso nel sentire l’aria gravida di lezzo. Il vecchio edificio era composto da un unico stanzone le cui pareti scrostate erano d’un candido colore azzurro, macchiato dagli aloni del fumo e dell’umidità. Il cammino, posto all’angolo più lontano, sulla sinistra rispetto all’ingresso, presentava un ceppo quasi spento, le cui braci scintillavano sonnolenti. Sulla destra, invece, un letto di paglia, coperto con alcune coperte di lana consumata dalle tarme, suggeriva un ben misero giaciglio. Al centro, v’era infine un grossolano tavolo di legno con sopra alcune stoviglie sporche, indicanti i resti di una frugale cena a base di pane e formaggio. Nel complesso, la decrepita dimora rispecchiava l’estrema indigenza di chi l’abitava, la quale, tuttavia, pareva infischiarsene. Infatti, Giuannica, tossendo come una tisica, prese pesantemente due sedie semisfondate e le offrì malamente alle due donne. E mentre lo faceva, tra una scatarrata e l’altra, ridacchiava lugubremente. “Allora, siete venute per sapere chi ha fatto lo sconcio alla signorinetta dei Dettori,” disse con aria sarcastica. Donna Maria arrossì. “Vorrei, zia Giuannica, che non si parlasse così di… di mia figlia. Caterina è una brava ragazza…” La vegliarda mosse la mano tremolante, come per dire di lasciar perdere. “Oh, lo so, lo so…” e rise di gusto, mostrando i pochi denti marci. “Ma farò in modo di aiutarvi a scoprire chi è il colpevole… Per farlo, però, devo compiere un incantesimo e mi serve un vostro capello, Donna Maria…” Quando Giuannica Marajani si avvicinò, strappando dalla testa della matrona un filo sottile, Donna Maria sussultò con gli occhi visibilmente spiratati e pieni di terrore. Un incantesimo? Ma allora tutta quella recita non era scena, esclamò tra se. Quella donna era davvero una strega. Si girò verso Lucia, che osservava attenta l’anziana donna la quale, allontanatasi da loro, s’era chinata nelle ante basse di una malandata credenza, prelevandovi delle strane boccette di terracotta. Allora le diede un colpetto nel grosso fianco per ridestarla. La serva, a quel richiamo, fece una smorfia di dolore e si girò verso la padrona, guardandola storta. “Oh sa meri,” disse, sussurrando, “che c’è?” “Ho paura, Lucia mia,” rispose Donna Maria con voce flebile e con il viso visibilmente intimorito, mentre stringeva il braccio della serva. “Non è che questa ci trasformi in gatti neri e ci renda sue schiave?” La vecchia megera pareva avesse sentito. Alzandosi stancamente dalla credenza e posando sul tavolo quello che aveva preso, disse: “Nulla di tutto questo.” Donna Maria, a quella risposta inattesa, sobbalzò dalla sedia. “Faccio solo quello che mi ha chiesto Lucia Musinu,” e rise ancora, intercalando con secchi colpi di tosse tisica. Dopo diversi e misteriosi preparativi, nei quali erano state pronunciate strane litanie, Giuannica Marajani si voltò verso le due donne in attesa. “Bene, ora dovete mettervi in quell’angolo della stanza,” e indicò il lato più estremo, opposto a quello dove era posizionato il camino; quello vicino al quale c’era il giaciglio della strega. “Rimanete lì, in silenzio, mentre io apro la finestra.” Le due donne si sistemarono nell’angolo, e rimasero a osservare quello che faceva la vecchia, la quale, dopo essere uscita nella piazzola, rientrò con una gabbia contenente un corvo nero. La gabbia venne posata al centro del tavolo, tra quattro candele accese. Giuannica Marajani l’aprì, e il corvo uscì lentamente fuori, attratto dallo strano canto della strega. Questa lo prese, legandovi nella zampa sinistra il capello strappato dal capo della moglie di Don Dettori. Intanto, Donna Maria, cerea, guardando quello strano rito tremava come una foglia, pentendosi cento volte di aver accettato la proposta della serva, la quale, invece, pareva assai a suo agio in quell’ambiente malefico. “Bene, bene,” disse a quel punto la vecchia strega, tutta soddisfatta. “Ora il mio corvetto, Marixedda, andrà per Villacidro e si poserà nella casa dello sconcio… E la luce della luna è così alta che da qui potremo vederla!” Con quelle parole, rise, mentre si avvicinava alla finestra e lanciava il nero volatile nel cielo notturno. “Vai, figlia mia… Vai!” Sotto la finestra aperta, Don Raffaele e Ziu Basiliu, ansanti per la salita, rimasero impietriti nell'osservare il malefico voltatile che, sbucato dalla topaia ove viveva Giuannica Marajani, andò a volteggiare verso il campanile di Santa Barbara, roteando e gracchiando come in preda a un delirio famelico. Era chiaro che il corvo non era altri che la povera Donna Maria. Avevano infatti fatto in tempo a udire le parole di Giuannica Marajani che l’aveva chiamato con il nome della moglie di Dettori; peggio, con il vezzeggiativo che lui solitamente le usava. Agghiacciato, Ziu Basiliu tirò Don Raffaele per la giacca. “Andiamo via,” disse, sussurrando e tremante. “Oh su meri, vi prego e vi supplico, andiamo subito via di qui! Se quelle coghe ci scoprono ora che la luna è alta e che la loro maledetta magia è forte, siamo finiti: ci trasformeranno in grossi topi e finiremo in pasto ai gatti!” Don Raffaele, istupidito, guardò il vecchio pastore e annuì. Era disperato. La moglie era stata trasformata in un corvaccio nero, grazie a quelle due streghe: la serva traditrice e quella vecchia decrepita di Giuannica Marajani. Mentre lo pensava, sconcertato, venne trascinato via dal pastore ubriacone. Correndo veloci, i due uomini ridiscesero i viottoli tetri e scuri della parte alta di Villacidro, superando case sprofondate nel sonno, piccole fontane che gorgogliavano e tigli che ondeggiavano al soffiare del vento. In poco tempo, madidi di sudore, si ritrovarono in viale Don Bosco che ridiscesero fino a piazza Zampillo. Intanto, Giuannica Marajani, dopo aver osservato a lungo il suo volatile, voltandosi indietro, fissò le due donne e disse tutta concitata e divertita: “Venite a vedere. Guardate, guardate,” e mentre lo diceva, rideva. “Il mio corvetto ha trovato ciò che cercate!” Le due donne allora si mossero; Donna Maria come un sasso. Si avvicinarono alla finestra, e la vecchia megera, con le dita tremule, scure anche alla pallida luce lunare, indicò un tetto ben visibile anche a quella distanza. “Guardate, quella è la dimora del seduttore!” gracchiò soddisfatta. “Lucia mia!” singhiozzò allora Donna Maria, portandosi la mano in bocca. “Ma quella… Quella…” Lucia Musinu annuì, fredda. “Già, quella è la casa di Gioacchino Murgia, il dottore! Ora sappiamo!”
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Un uomo intelligente spesso si troverebbe in imbarazzo senza la compagnia di qualche sciocco!
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Modificato da - Fish in data 22/10/2006 13:13:25 |
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Jana Ojos-de-Luche
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Inserito il - 22/10/2006 : 11:23:42
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Davide..... sta diventando sempre più bella l'attesa per leggere il seguito del racconto!!!!!!!!! Bravissimo.......
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