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Nota Bene: Proviene da Nule (Sassari) un bronzetto nuragico , unico nel suo genere, rappresentante un "toro androcefalo", ovvero un toro con testa umana, una sorta di minotauro. E' la probabile rappresentazione di una divinità o di una figura mitica dei nuragici.



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Nigel Mansell
Salottino
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Inserito il - 12/11/2007 : 22:46:50  Link diretto a questa discussione  Mostra Profilo  Visita l'Homepage di Nigel Mansell Invia a Nigel Mansell un Messaggio Privato  Rispondi Quotando
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Scarpe lucide che scricchiolano di nuovo, si torcono a fatica per assecondare i piedi veloci ed entusiasti. Sono calzature costose, forse un pochino pretenziose e lucidate con la massima cura. Sono lunghi passi quelli che aggrediscono il porfido lucido dell’umidità rilasciata dalla gelida notte, tradiscono l’ansia di mangiare la strada, di bruciare il tempo, questo è un giorno importante per Mario.
C’è un sole inatteso che fatica a intrufolarsi tra i tetti per raggiungere il centro storico. Deve sbrigarsi, è in ritardo, perciò allunga ancora di più la falcata. Giovanni lo aspetta all’imbarcadero con la sua Seicento. E’ un buon amico, un ragazzo di ottima famiglia, una delle prime persone con cui ha legato arrivando a Intra. Si è offerto con entusiasmo di accompagnarlo alla stazione.
Il tiepido sole di dicembre di tanto in tanto riesce a insinuarsi fin sotto il suo cappotto, poi corre lungo la colonna vertebrale provocandogli leggeri brividi di piacere. Intorno a lui, nei vicoli della contrada, il paese fatica a svegliarsi. Qualcuno con assonnati movimenti si affaccenda intorno al suo negozio, alza le serrande, spazza la soglia. Una donna più su timidamente apre le imposte, saluta il nuovo giorno esponendo cuscini e lenzuola ancora tiepidi, i suoi passi precipitosi rimbombano nella stretta contrada. Mario non indossa la solita divisa, ma l’ometto all’angolo, consumato dall’alcol, con il mozzicone sempre tra le labbra, lo riconosce. Lo saluta in quel dialetto per lui ancora incomprensibile, sottolineando il tutto con un ossequioso piegare del capo. Sono quelli che hanno più da temere i più gentili con loro: a chi si guadagna da mangiare contrabbandando sigarette dalla Svizzera su veloci Giuliette, fa sempre comodo vantare conoscenze tra i Carabinieri.
Mario discende velocemente la stretta via principale di Intra, una cittadina dell’alto Piemonte, quasi lombarda e un poco svizzera, chiusa tra i suoi due fiumi, il San Bernardino e il San Giovanni, con le verdi montagne della Val Grande alle spalle e uno splendido Lago Maggiore di fronte che la divide dalla ricca provincia di Varese. E’ tanto diversa dal suo paesino attaccato alle falde del Gennargentu tanto che pare una zecca che succhia nutrimento da un cane magro e dolente: tutto qui gli sembra nuovo e bello. La gente è ricca e ottimista. C’è sopratutte la Montefibre che dispensa ricchezza a chiunque. Città nella città è parte della vita di tutti, il padre lascia il posto al figlio e sempre più contadini abbandonano le ingrate montagne per indossare la tuta blu. Il suo stipendio, da carabiniere semplice, neanche avvicina quello dei tanti operai intresi che nei giorni di festa scorrazzano sulle loro vespe con ragazze all’amazzone sul sellino posteriore. Lui è contento lo stesso: è più di quanto si aspettasse. Ha lasciato Tonara nel centro della Sardegna dove nevica più che quassù, dimenticando i buchi nei pantaloni e i morsi della fame. Con molti altri è fuggito, ha indossato i pantaloni con le righe rosse e il cappello con la fiamma per diventare il braccio di uno stato che lui stesso non riconosceva…
E’ il glorioso 1961 il centenario dell’Unità d’Italia, una Torino radiosa e ancora grande accoglie nuovamente la capitale. Si spalanca davanti ai suoi occhi un mondo che neanche immaginava, un mondo che lo accoglie a braccia aperte e lui ci si tuffa senza timore. Ma non sempre è bello, davanti alla Fiat lanciano loro le monetine, li chiamano servi dello stato. Non capisce, quando con la fame non ancora saziata e le belle torinesi negli occhi si trova a fronteggiare le bandiere rosse di gente ostile, le sassate e gli sputi, ma poi arriva l’ordine e si carica. Qualche mese più tardi il trasferimento, dal Battaglione alla Territoriale…
Qui a Intra la vita è più semplice e la gente è più affettuosa, non si respira l’aria della grande città ma è sempre meglio della Sardegna. Donne disponibili e sensuali con corte gonne a cui non era abituato gli sorridono, la sua gioventù di brillantina e un portafogli mai vuoto poi aprono ogni porta.
Un’occhiata veloce al suo Lorenz placcato oro di cui va molto fiero, l’ha comprato a Locarno con il primo stipendio: è veramente tardi.
Finalmente sbuca dai vicoli per emergere sul lungolago. Il sole che si specchia sul lago lo acceca, è una bellissima giornata per tornare a casa. Giovanni lo attende sulla Seicento, inganna il tempo dondolando con la gamba sinistra la porta controvento. Con occhio distratto legge la pagina sportiva della Gazzetta del Popolo ma con l’altro non si fa sfuggire le prime ragazze che passeggiano sul lungolago.

< Allora Mario, lo vuoi proprio perdere questo treno, cos’è il Maresciallo ci ha ripensato e ti ha stracciato il permesso? >
< Non dirlo neanche per scherzo Giovanni, è un anno che non torno a casa! >
< Perché, cosa ti manca qui a Intra, non mi dirai che le sarde sono meglio delle nostre, ma dai che se al tuo paese solo la guardi una donna ti obbligano a sposarla >

Non lo ascolta già più, è impegnato a cercare il biglietto del treno, intanto mentalmente controlla se non si è scordato di nulla. A fatica la Seicento si avvia, poi facendosi largo tra la piccola folla che nel frattempo è sbarcata dal traghetto per il giorno di mercato, si butta nella statale polverosa.
Alla stazione di Fondotoce lo aspetta un treno affollato. Perlopiù sono emigrati che per le feste natalizie ritornano al loro paese dalla Svizzera, dalla Germania o chissà da dove. C’è gente ovunque, gli scompartimenti sono affollati e si deve sistemare per terra, accomodandosi come meglio può, il viaggio sarà lungo sino a Genova.
Seduto sulla piccola valigia ripensa a un fantastico millenovecentosessantuno che sta per finire, un anno che ricorderà per tutta la sua vita: Torino ’61, la rivista e le ragazze di Macario, Gagarin nello spazio e Spartacus al cinema. Non afferra la gravità di quei mattoni che stanno posando davanti alla Porta di Brandeburgo o dei battibecchi nei Caraibi. Il Piemonte scorre veloce fuori dai finestrini, campagne e paesini si alternano senza sosta, poi la lunga sequenza di gallerie che bucano le alpi lo lasciano al buio, accidenti l’illuminazione non funziona. Rimane solo con i suoi pensieri e gli odori non certo gradevoli delle numerose persone stipate ormai da molto tempo in uno spazio troppo angusto. Finalmente il treno attraversa le montagne e di lontano scorge all’orizzonte la linea continua del mare.
Scende a Porta Principe. La Genova che per mancanza di spazio si è arrampicata sui ripidi rilievi lo guarda dall’alto. Si dirige verso il mare attraversando le vie alla moda e le piazze grandiose della città: tutto intorno a lui gli annuncia l’imminente Natale. Scende i gradini della Stazione Marittima, il porto si apre davanti a lui con l’inconfondibile odore di salsedine e combustibile sversato nell’acqua. Alla sua destra la Lanterna simbolo di Genova rincuora i naviganti e davanti ai suoi occhi l’enorme distesa di acqua viva e pulsante lo fa vacillare. Tutto è grigio, il cielo ora si fonde con il mare, purtroppo il tempo è peggiorato. Un vento gelido e dispettoso gli fa battere i denti, mentre in cielo i gabbiani lottano per non essere trascinati via. Il mare è gonfio di rabbia, gli incute un certo timore, ma non può non ammirare quanto sia infinitamente bello. Respira a pieni polmoni, l’acqua è un richiamo irresistibile per un sardo, sono le sue radici, quelle di tutti quegli uomini che nascono su quella isola dimenticata nel Mediterraneo, che come una palafitta è ancorata solo al fondo del mare, staccata dall’Italia, dall’Europa e dall’Africa, unica e inconfondibile, come i sardi.
All’imbarco per la nave che lo porterà a Porto Torres ritrova alcuni vecchi amici del Battaglione. Sono Soddu e Attori i due piccoletti scuri di Ovodda, Dejana di Sorgono, e Arcangelo Saba di Orotelli che non vuole assolutamente essere chiamato per cognome, cosa che invece fanno tutti tra colleghi. E’ sempre uguale, agitato e nervoso come ai tempi di Torino. Sono tutti curiosamente della provincia di Nùoro come lui. Tutti abbigliati con cura con vestiti dall’eleganza chiassosa che li fanno rassomigliare a giovani gangster di Chicago: vogliono fare un’ottima impressione al loro ritorno in paese. Hanno la stessa sindrome dell’emigrato diventato ricco che ritorna da New York strombazzando con la cadillac dalle dimensione di un cetaceo, anche loro vogliono suscitare l’invidia nei pochi amici rimasti in paese. Tutti devono sapere che si sono sistemati, che non sono fuggiti per il nulla, che in continente si sono fatti una posizione.
E’ la notte del 23 dicembre quando la nave salpa abbandonando le luci di Genova per il buio di un mare senza luna né stelle. Se tutto andrà bene domani si sveglierà in acque sarde.

Finché navigano nelle acque riparate dal porto il mare culla la nave, solo a tratti qualche onda la strattona più violentemente. Purtroppo non appena escono in mare aperto tutto inizia a dondolare, il mare inferocito prende tra le sue braccia l’imbarcazione e inizia a sballottarla. Le enormi onde raggiungono il ponte esterno, la pioggia batte violentemente senza sosta contro gli oblò, fuori tutto è nero solo qualche lampo squarcia di tanto in tanto le tenebre. Le bottiglie vuote abbandonate sul pavimento rotolano da una parte all’altra del ponte, le porte sbattono, tutto ciò che non è fissato scorre da destra a sinistra seguendo il moto del mare. Intorno a lui tutto gira, perde ogni certezza per il senso di precarietà estrema che gli procura il saliscendi. Mario cerca invano di rimanere tranquillo in modo da offrire un punto fisso al suo povero stomaco martoriato. Ha la sensazione di essere sulle montagne russe, mentalmente segue il percorso delle onde, si sale fino all’apice per poi cadere senza appigli nello spazio che si crea e poi di nuovo così senza sosta, senza fine, continuamente.
E’ seduto insieme ai suoi compagni di viaggio nel bar del ponte che ostentano indifferenza nonostante siano tutti preoccupati: hanno davanti almeno dieci ore di navigazione e se saranno tutte così non c’è da stare molto allegri. Riemergono vecchi aneddoti del battaglione, poi i ricordi della comune terra hanno la meglio facendo riemergere così la malinconia mai sopita delle case lontane.
Ma poi il malessere comune aumenta e inevitabilmente cala il silenzio. Mario si sente lo stomaco in gola, è una vera tortura, si sente debole e impotente, la fronte è imperlata di sudore, e il senso di nausea continua a crescere come il latte che bolle e si prepara a saltare fuori dal pentolino. Avverte di essere allo stremo, non riesce più a controllarsi, si sente lo spuntino del pomeriggio ancora non digerito venirgli su sino in gola, tenta allora di guadagnare i bagni più vicini. Lungo i corridoi la gente si appoggia alle pareti si sostiene come può e inevitabilmente inizia a sboccare. Ovunque intorno a lui è imbrattato: la gente vomita a più riprese e non si cura più di nulla. Raggiunge finalmente i bagni, lo spettacolo è raccapricciante, lo assale un odore acre, ed è allora che un conato di vomito lo sorprende e lui vi si arrende senza combattere ormai esausto.
Si ripulisce come può, esce dal bagno schifato e inizia a vagare nei corridoi senza meta, come un fantasma, accompagnato dalle ombre degli altri passeggeri. Pensa che gli farebbe bene uscire sul ponte esterno per prendere una boccata d’aria, anche se sa che rischierebbe di essere trascinato via da qualche onda. Purtroppo scopre che le uscite sono state bloccate dai membri dell’equipaggio, hanno sbarrato le porte e sigillato tutte le aperture, è diventato troppo pericoloso uscire. Torna indietro e stramazza senza forze a terra vicino ai suoi colleghi. Trascorrono le ore senza che la situazione migliori, il suo stomaco non riesce assolutamente ad abituarsi a quel movimento, è un malessere continuo che lo tortura, fatica anche a pensare, il senso di nausea è sempre molto forte, è debole e oramai privo di ogni iniziativa, sconfitto si abbandona agli eventi.
Per fortuna, nonostante tutto, il tempo passa e la nave viaggia. Sono ormai le sei e un quarto, qualche passeggero ben informato sparge la voce che stanno per doppiare la Corsica. La notizia procura a Mario un certo sconcerto, lo attendono le famose Bocche di Bonifacio, il canale che divide la punta sud della Corsica da quella nord della Sardegna, perennemente percorso da forti correnti marine. Anche con il mare liscio come l’olio, se lo ricorda bene, quando si passa da quelle parti si balla comunque, figuriamoci in quelle condizioni.
Infatti come aveva temuto la nave inizia a oscillare in modo pauroso, sembra che si spezzi sotto la spinta delle onde. Il Capitano preoccupato, tramite il personale dell’equipaggio, comunica che in quelle condizioni preferisce fermarsi. Così rimangono in mezzo al mare, abbandonati in balia della violenza delle acque, immobili in vista della meta ma impossibilitati a raggiungerla. Il capitano posiziona la nave affinché non si trovi controvento così da offrire meno resistenza possibile alle onde poi spegne i motori. La gente inizia a essere presa dal nervosismo, qualcuno viene colto da attacchi di panico, tutti sono comunque preda di quel senso continuo di nausea che non li abbandona.
Arriva anche mezzogiorno ma naturalmente nessuno pensa al pranzo, la situazione non si sblocca e non accenna a migliorare. Si sente come un naufrago, non ci sono notizie, non si sa nulla e la nave non accenna a ripartire.
Finalmente quando ormai sono le quattordici del 24 dicembre 1961 il mare allenta la presa e la nave a fatica si rimette in moto. Non riescono a gioire perché non hanno più forze. Intorno a loro la nave è ormai ridotta a uno schifo, l’equipaggio si è volatilizzato, nessuno si è più curato di pulire, sicuramente anche loro non sono stati in grado di sopportare la situazione: dicono che al mal di mare non ci si fa mai l’abitudine.
Fortunatamente alle quindici arrivano a Porto Torres, distrutti si lanciano sulla passerella appoggiata alla murata della nave per sbarcare sulla terra ferma. Non piove più ma il cielo è sempre coperto. Mario è felice, è come se sentisse l’odore del mirto delle sue montagne arrivare fino a lì. La gente intorno parla la limba, le donne più anziane indossano il costume tradizionale e gli uomini con i vestiti di fustagno, con i loro modi molto riservati, e il vezzo di calarsi la berritta sugli occhi. E’ a casa, lo sente, non deve più sforzarsi di tradurre i suoi pensieri in italiano e può dare libero sfogo al suo entusiasmo, finalmente intorno non vede che la sua gente.
Camminando finalmente sulla terra ferma gli pare di essere un cosmonauta appena sbarcato da un razzo interplanetario, vorrebbe correre dalla felicità ma è come se appunto una pesante tuta spaziale gli impedisse i movimenti. E’ molto debole, sono più di dodici ore che non inghiotte nulla e non ha fatto altro che vomitare, la nausea non l’ha ancora abbandonato e se chiude gli occhi è come se tutto ancora ballasse. Raggiunge i suoi colleghi, Soddu, Attori, Dejana e Arcangelo che sono di ritorno dalla stazione ferroviaria: brutte notizie, fino a domani non partirà più nessun treno.
Si guardano intorno scoraggiati, quando scorgono una vecchia millecento, all’interno un ometto seduto al posto di guida che ha tutta l’aria di essere un tassista abusivo. Incrociano lo sguardo del tipetto che capisce al volo le loro intenzioni, scende dall’auto e corre loro incontro. E’ un uomo buffo, vestito in modo sciatto con i pantaloni strappati e la capigliatura confusa, ma con uno sguardo buono. Trattano il prezzo, cinquemila Lire per uno: totale venticinquemila per tornare a casa, a tutti pare un’ottima soluzione. L’uomo si fida, non chiede i soldi in anticipo e l’accordo si fa. Stipati nella malandata e cigolante vettura si avviano per risalire le alture della Barbagia dove li aspetta la loro casa.

Il tassista pare simpatico, chiede di loro, da dove arrivano, che lavoro fanno. Si informa sui loro nomi e a sua volta si presenta, si chiama Ignazio Orrù, ma insiste per farsi dare del tu e li obbliga a chiamarlo per nome; poi continua a incalzarli, vuol sapere come sono le continentali, se è vero che sono così facili. Inizia a narrare loro di simpatiche avventure che gli sono accadute, racconta delle sue conquiste amorose: a sentire lui le donne non resisterebbero al suo fascino. Lo guardano bene, vedendolo così mal combinato non riescono a credere a una parola di quello che racconta. Il tassista chiacchiera continuamente, è molto distratto e non si cura quasi dalla strada, a volte si gira addirittura verso i sedili posteriori per vedere se i passeggeri lo ascoltano con attenzione o per sottolineare con qualche gesto particolare le fasi più salienti dei discorsi, il più delle volte poi è costretto a girarsi repentinamente per correggere la traiettoria dell’auto di cui ha perso inevitabilmente il controllo. Arcangelo si è sistemato con Mario davanti, gli altri tre sono dietro. Arcangelo è stanco e nervoso, sembra che non lo ascolti, se nonché di tanto in tanto smonta con battute velenose i castelli che l’autista faticosamente costruisce con le sue narrazioni.
Le strade sono quasi deserte, è freddo, la gente è povera e nonostante sia ormai Natale non c’è molta voglia di festeggiare in giro. La guerra ha lasciato la Sardegna ancora più povera di quello che era e ora stenta a risollevarsi… Mario ricorda che suo padre prima del conflitto, forse per timore di quello che sarebbe accaduto o magari mal consigliato, si vendette tutto e alla fine delle ostilità si ritrovò con un mucchio di carta straccia tra le mani, l’inflazione si era mangiata tutto. Al contrario di suo padre i ricchi possidenti avevano potuto investire e si comprarono tutto ciò che era disponibile diventando ancora più ricchi e potenti. Ricorda che la miseria costringeva la gente ai furti di bestiame, l’abigeato era il reato più comune, i barracelli come nei film western partivano per cercare nel sopramonte i malfattori che arrivavano dai paesi confinanti e poi si faceva giustizia sommaria. Avevano un asino in casa che li aiutava a portare il peso della legna, dalla campagna al paese, l’avevano chiamato Mussolini. Sua mamma analfabeta si era messa a vendere frutta e verdura, ma i conti non li sbagliava. Francesco, suo padre, faceva lavori occasionali, a volte si doveva spostare a piedi fino a Oristano o Cagliari, quando diventò più grandicello si portava dietro anche Mario che era il maggiore dei figli. Dormivano dove potevano, in campagna sotto la luna o in baracche che i pastori abbandonavano spostandosi dietro le greggi. Una notte si sistemarono in una casupola dallo spesso letto di fieno e foglie, dormirono tranquilli nel soffice, il giorno dopo i Carabinieri arrestarono suo padre, sotto il fieno c’era un cadavere e lo ritenevano responsabile. Fortunatamente trovarono il colpevole e dopo alcuni giorni rilasciarono suo padre che era buono come il pane: la giustizia ai tempi era abbastanza sbrigativa con le persone comuni. I suoi due fratelli, Cheli e Boste erano diventati carabinieri come lui, il più piccolo Cosimo invece avrebbe studiato, con l’eskimo e la barba da rivoluzionario sarebbe entrato nella Cattedrale del Deserto nella piana di Ottana, per diventarne uno dei devoti sacrestani, un’altra dolorosa ferita di una Sardegna offesa e per di più presa per i fondelli…
Curve e controcurve, la strada è peggio del mare della notte scorsa, sembra tracciata seguendo una mulattiera, assecondando i confini dei piccoli appezzamenti di terreno per non fare un torto a nessuno e scontentare così tutti.
E’ ormai pomeriggio inoltrato, sono già le cinque e inizia a scendere la notte. Raggiungono paesini dalle lucine fioche che brillano nelle piccole finestre delle misere case, paiono paesaggi da presepio. Li raggiungono e in un attimo li attraversano tanto sono piccoli poi li lasciano velocemente alle spalle per ripiombare nelle campagne dalle strade sterrate e prive di ogni illuminazione. A Orotelli Arcangelo scende contento, paga la sua parte e con le solite promesse di rincontrasi lascia gli altri compagni di viaggio che iniziano ad inerpicarsi nella lunga teoria di tornanti verso il Gennargentu alla volta dei loro paesini.
Mario rimane davanti da solo, dietro gli altri chiacchierano e a tratti sonnecchiano. Non appena è sceso Arcangelo, subito dopo Orotelli, la macchina ha dato qualche strappo. Ignazio il tassista, li ha avvertiti con una smorfia preoccupata, ma tutto sembra che proceda in modo tranquillo e Mario non si preoccupa più di tanto, d’altronde è normale che quel taxi abbia i suoi acciacchi. E’ una vecchia millecento di un colore ormai indefinibile, forse non è mai stata lavata, con sfregi e rappezzi ovunque sulla carrozzeria, ma il suo dovere lo fa: romba sulle strade bianche lasciandosi dietro nuvole di polvere chiara che contrastano con il buio della notte e procede sicura nelle strade desolate. A volte Ignazio non riesce a evitare le buche improvvise, allora pare che il taxi si spezzi in due, invece la macchina ostinata continua, ferita ma non sconfitta disegna con precisione le curve per poi prendere velocità nei rari rettilinei.
Purtroppo nei pressi di Orani, dopo uno strappo più lungo dei precedenti la macchina si ammutolisce. Ignazio suda freddo, prova a insistere sollecitando più volte il motorino d’avviamento ma niente da fare. Scende, molla un calcio alla ruota anteriore, poi apre il cofano, si tuffa nel vano motore sparendo alla loro vista per ricomparire dopo alcuni secondi sporco di grasso. Niente da fare dice, non ne vuol sapere di ripartire. Lo dice però con un’espressione strana, quasi imbarazzata, che loro non prendono in considerazione o al momento non ritengono significativa, d’altronde hanno una scarsa conoscenza di motori e si fidano della sua diagnosi.

< Allora Ignà, adesso che si fa? – Lo apostrofa Soddu. >

Si guardano in giro, tutto è buio, nessuna luce. Sono ormai le otto di sera, per fortuna il cielo si è aperto e una bella luna quasi piena rischiara la via. Il tassista farfuglia qualcosa, parla di un amico meccanico da qualche parte più su che potrebbe aiutarli. Decidono allora di spingere l’auto fino dal meccanico. Ignazio essendo il tassista si mette alla guida. Mario, Dejana e i due di Ovodda dietro a spingere.
Approfittano di una leggera discesa per far prendere velocità alla macchina cercando di riavviarla. Tutti sudati la lanciano cadendo insieme per terra, ma niente da fare. Il motore non si riavvia. Ignazio molla più volte la frizione, ma pare che il motore non reagisca. Si mettono il cuore in pace, tornano a spingere rassegnati e non tenteranno più di far ripartire l’auto.

Le ore passano, la macchina procede di pochi centimetri alla volta, le salite si alternano alle discese. La fatica si fa sentire e la ciurma che prima spingeva silenziosa e accomunata dall’intento di arrivare in fretta a casa, ora per via della stanchezza e del freddo inizia a diventare rumorosa e nervosa.
Man mano che il tempo passa, la meta anziché avvicinarsi gli pare allontanarsi sempre di più. Procedono lentamente e nelle salite più ripide è già un successo se l’auto non torna indietro e non li schiaccia.

< Dove hai detto che si trova il meccanico? > Grida Soddu da dietro, abbastanza agitato e spossato dalla fatica.
< Mah, mi sembra a Ovodda, beh sai non è che mi capita spesso di avere dei clienti da portare fin quassù… dovrebbe essere tra poco… > Bofonchia Ignazio sporgendosi dal finestrino della Millecento.
< Non è che mi convince molto questo tassista > Commenta a bassa voce Dejana con gli altri forzati.

Intorno il paesaggio inizia a cambiare, man mano che salgono nel buio ora si intravede una vegetazione più fitta e nel fondo della campagna si avvertono i versi e i fruscii degli animali indisturbati intenti nella loro caccia notturna. Mario guarda il suo orologio: è ormai mezzanotte. Si volta verso gli altri e con fare cameratesco augura loro il Buon Natale. Si erano immaginati di passarlo con le loro famiglie al caldo questo momento, invece sono perduti nella campagna più buia, senza un’idea di quando raggiungeranno il loro paese.

Arriva Gavoi, tutti dormono e non c’è speranza di farsi aiutare da nessuno. Si lanciano in fondo alla valle, il taxi prende velocità e loro dietro di corsa. Intorno è tutto un cantiere, tra qualche giorno qui tutto sarà sommerso dall’acqua dei fiumi che innaffiano a intermittenza la valle. La diga in cemento armato creerà il Lago di Gusana: acqua ed energia elettrica per tutti, il progresso finalmente avanza e arriva fin quassù.
In effetti quel lago cambierà molte cose, una manciata di turisti in più e l’acqua in casa, ma il clima non sarà più lo stesso. Non ci saranno più quelle abbondanti nevicate di quando Mario era bambino.
Sono arrivati oramai in fondo alla valle, quando Attori tipo riflessivo e silenzioso al contrario del suo paesano Soddu, insinua un sospetto tra chi spinge:

< Hei ragazzi mi è venuto un certo sospetto, Ignazio non si è mai fermato per rifornire, non ci ha neanche chiesto i soldi per farlo. Non vi pare strano che un vagabondo come lui avesse il pieno nel serbatoio, di sicuro non poteva immaginare a Porto Torres che avrebbe dovuto fare così tanti chilometri per portare della gente fin quassù… >

Soddu prende la palla al balzo, tira fuori di tasca il suo fazzoletto, lo lega in cima a un lungo bastoncino che raccatta per terra e lo infila nel serbatoio dell’auto. Lo spinge fino in fondo, lo rigira più volte e poi lo estrae. E’ completamente asciutto e lo mostra ai compagni increduli.
Nel frattempo Ignazio scende dall’auto insospettito dal fatto che i suoi clienti non stanno più spingendo.

< Bastardo, delinquente che non sei altro! > Lo aggredisce Soddu.

Poi gli si avventa contro, rotolano insieme nella cunetta a fianco della strada, il povero Ignazio ha la peggio e si ritrova sotto il piccoletto di Ovodda che lo riempie di pugni in faccia, tutti incredibilmente a segno che gli devastano naso e zigomi. Subito intervengono Dejana e Attori che invece di separarli danno man forte a Soddu. In pochi secondi il povero tassista viene raggiunto da una quantità incredibile di colpi. Soccombe senza difese: è ormai una maschera di sangue. Cerca di proteggersi come può, ma la quantità dei colpi che portano a segno i tre aggressori inferociti è impressionante. Mario intervenie e con il rischio di prendersi qualche xxxxxtto anche lui e riesce a portare in salvo il disgraziato tassista.

< Ma siete impazziti, lo volete uccidere, vi siete dimenticati che siete dei Carabinieri! > Grida Mario che è riuscito a rimettere in piedi il tassista e ora gli fa da scudo con il suo corpo.

I tre abbassano la testa pentiti, realizzando cosa hanno fatto. Passa ancora qualche minuto di silenzio, e la rabbia dei tre fortunatamente sbolle. Ignazio è irriconoscibile, perde copiosamente sangue dal naso e la ferita dell’arco sopraciliare devastato è paurosa. Sembra che sia reduce da dieci round di fuoco con Primo Carnera, invece è bastato solo un attimo ai tre viaggiatori esasperati da ore di fatica per spingere un’auto che lui aveva fatto credere fosse in panne e invece era solo senza benzina.

< Ma Ignazio, sei proprio cretino, ti sarebbe bastato dire la verità, ci avresti risparmiato tutte queste ore a spingere, qualcuno sarebbe andato a prendere la benzina e ora saremmo già a tutti casa a raccontare l’imprevisto alle nostre mamme… > Gli sussurra Mario in modo da non farsi sentire dagli altri che si sono appena calmati.
< Lo so, lo so. Che ci vuoi fare, sono fatto così, me ne darei ancora altri cento io di xxxxxtti sulla testa, ma non ci posso fare nulla, è più forte di me, dimentico tutto… > Risponde Ignazio cercando di tamponarsi le ferite con un fazzoletto che gli ha dato Mario, perché naturalmente lui si è dimenticato anche di quello.

Cercando di trovare una soluzione per sbloccare la situazione Mario fa un passo verso i rivoltosi, lasciandosi alle spalle Il tassista che nel frattempo si protegge nascondendosi dietro l’auto.

< Se mi ricordo bene dovrebbe esserci un distributore di benzina a Ovodda. Ignazio potrebbe prendere la tanica che c’è nel bagagliaio e recuperarne almeno qualche litro in modo da poter riavviare l’auto e poi fare il pieno con tutta calma. >
< Per me va bene, non avrei spinto un metro di più quella macchina. Ma se non torna subito, o cerca di fare il furbo, giuro che questo glie lo ficco nella pancia! > Risponde Soddu e con gesto veloce estrae la lama che scintilla nell’oscurità, del Pattada il leggendario coltello dal manico d’osso da cui non si separa mai.

Anche gli altri sono d’accordo. Lo scellerato Ignazio prende la tanica e trascinando i piedi, ancora dolorante e piagnucolante si avvia verso Ovodda e viene presto inghiottito dall’oscurità.
Mario rimane solo, gli altri si tengono in disparte, non hanno gradito quando gli ha tolto dalle mani quel poveraccio del tassista, ma forse si stanno già vergognando di come hanno ceduto all’ira.
Solitario rimane a guardare il fondo della valle rischiarata dalla luna, lanciando nel vuoto sassetti scelti con cura lì intorno per ingannare il tempo. E’ l’ultima volta pensa che vede questo luogo, poi ci sarà il lago e tutto verrà coperto.
Passano circa due ore e lo sbadato tassista ritorna. Senza dire una parola travasa la benzina nel serbatoio e sempre nel silenzio risalgono tutti in macchina e ripartono. Arrivano a Ovodda, Soddu e Attori scendono e si allontano.

Ignazio abbassa il finestrino richiamando l’attenzione dei due:

< Beh, vi siete scordati i soldi! >
< Ma vaffanculo! > Risponde Soddu tagliando corto e stoppando così qualsiasi tentativo di replica da parte del tassista.

Lasciano Ovodda e nei pressi di Tìana li attende la neve, ne è caduta molta la notte scorsa, per fortuna la strada è sgombra. Il taxi corre veloce rinfrancato dal pieno di carburante che nel frattempo hanno fatto a Ovodda, svegliando per la seconda volta il rifornitore, dopo che lo aveva fatto Ignazio con la tanica.

Raggiungono “Sa Cantonera”, la strada si divide: a sinistra si va per Tonara a destra si gira per Sorgono. Mario deve scendere, il distratto Ignazio proseguirà per portare a casa Dejana. Mario consegna le cinquemila pattuite al tassista che ringrazia riconoscente.

< D’ora in avanti assicurati sempre di avere la benzina necessaria quando parti per qualche viaggio! > Grida Mario con fare canzonatorio all’indirizzo di Ignazio che sorride con amarezza mentre già è sulla strada per Sorgono.

Mario rimasto solo guarda pensieroso “Sa cantonera”, una vecchia casa cantoniera dell’Anas. Una solida costruzione di colore rosso che spicca nel bianco dell’abbondante nevicata… La casa cantoniera delimita il confine più estremo del territorio di Tonara, da bambini era per loro come le Colonne d’Ercole per gli antichi, oltre c’era l’ignoto. Più grandi era diventato luogo di appuntamenti, punto fisso per raccontare le proprie esplorazioni che partivano sempre da lì, faro di viandanti dispersi e indubbio caposaldo per spiegare la strada ai forestieri, o per far cominciare ogni racconto delle loro scorribande giovanili…

In lontananza può già scorgere il suo paese, lassù in cima, avvolto nella neve ovattata e rischiarato dalla livida luce dell’alba. Intorno i pochi uccelli del bosco che non sono emigrati si organizzano per procurare quel tipico grande frastuono che annuncia la fine della notte e l’inizio del giorno.
Un attacco di nostalgia lo coglie improvvisamente mentre riguarda l’abitato lontano, quanti ricordi, mille sensazioni gli riaffiorano alla mente. E’ come un pugno nello stomaco, non riesce a resistere e una lacrima gli solca il viso.

La strada non è stata spazzata, c’è neve dappertutto, almeno mezzo metro, si fa fatica a stare in piedi. Fortunatamente passa un contadino con un rudimentale trattore che gentilmente lo fa montare dietro sul cassone. Lo porta fino al centro di Tonara, poi gira verso Aritzo. Mario smonta per proseguire verso Arasulé il rione dove è nato, quello più alto del paese vicino alle sante fonti di Galusé cantate dal poeta tonarese Peppino Mereu.

Esausto, con quello che era il suo più elegante vestito ridotto oramai a un cencio, fatica a camminare. Sono ormai due giorni che è in viaggio, non ha mangiato niente, non ha praticamente dormito e si è sfinito nello spingere la millecento. Sono ormai le otto del 25 dicembre 1961.

Passa accanto alla Chiesa di S.Antonio, Don Giuseppe che passeggia nel piazzale ripassando la predica della Messa Magna di Natale alza gli occhi e rimane colpito dallo stato di quel ragazzo che passa per strada.

< Lampu! Figgiu meu, pari un sopravissuto della Campagna di Russia! >

Mario ride, alza le braccia in aria senza girarsi, si arrende in un gesto che vuol rassicurare il parroco e dimostrare che nonostante tutto ha ancora voglia di sorride e la battuta del parroco; ma non ha proprio voglia di parlare,ora vuole solo ritornare a casa.




Nigel Mansell




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ziama
Salottino
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Inserito il - 12/11/2007 : 23:18:54  Link diretto a questa risposta  Mostra Profilo  Visita l'Homepage di ziama Invia a ziama un Messaggio Privato  Rispondi Quotando
Tutto d'un fiato di nuovo...
il tuo papa', vero?





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Nigel Mansell
Salottino
Nuovo Utente



Inserito il - 13/11/2007 : 08:48:35  Link diretto a questa risposta  Mostra Profilo  Visita l'Homepage di Nigel Mansell Invia a Nigel Mansell un Messaggio Privato  Rispondi Quotando
Sì. così l'ha raccontata lui


Nigel Mansell





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