Nota Bene: Nella Sala Nuragica del Museo Sanna di Sassari si trova la prima attestazione diretta della filatura in Sardegna. Da S'Adde 'e s'Ulumu - Usini provengono vaghi di collana in bronzo, di età nuragica , che conservano i residui di una cordicella di fibre vegetali filata a più capi.
Il 20 Maggio del 1945 , nei giorni di devastante follia per l’Italia intera , quando dalla contrapposizione di due opposte fazioni esplosero le contraddizioni che portarono alla svolta di non ritorno della guerra civile , veniva lapidato Giuseppe Biasi , considerato da molti il più grande artista sardo della prima metà del Novecento- Biasi aveva partecipato alla prima guerra mondiale come volontario e fu anche ferito. Durante la Seconda guerra mondiale, in seguito a una mostra che tenne a Biella, dove era stato chiamato per decorare il santuario di Oropa nel 1942, si trasferì per il resto della vita. L’8 settembre 1943 in seguito all’armistizio, Biasi che, rimasto uomo di sinistra, era stato anche fascista di sinistra, da sempre repubblicano, trovò naturale schierarsi con l’ultimo fascismo, quello della Repubblica Sociale. A guerra finita fu catturato dai partigiani in una retata a caccia di fascisti e chiuso nel carcere di Biella. Il 20 maggio 1945 con una marcia a piedi assieme ad altri 28 prigionieri fu condotto verso un campo di concentramento ad Andorno Micca, a sei chilometri da Biella; nel centro del paese la colonna di fascisti prigionieri fu fatta segno a insulti, sputi e lancio di pietre; una gragnuola di sassi colpì il sessantenne Biasi che, ultimo della fila, camminava a fatica, aiutato da due giovani prigioniere, perché già malandato. In quattro rimasero feriti dalle sassate, Biasi finì a terra e, lapidato, fu finito con un ultimo colpo di pietra alla testa. Un artista al quale non sarebbe stato possibile imputare alcunché in un ipotetico processo. Giuseppe Biasi fu sepolto dagli amici a Biella e nel 1994 la sua salma fu riportata nella natia Sardegna, a Sassari.
All’inizio degli anni Duemila, recuperandolo dal silenzio ne riparlò Vittorio Sgarbi con un articolo dal titolo
“Troppi sordi per quel sardo”.
Sono ancora troppi, anche fra i presunti specialisti di arte italiana del Novecento, a non conoscere Giuseppe Biasi (1885-1945). Una mancanza grave, perché Biasi è certamente una personalità di assoluto rilievo nelle vicende artistiche nazionali avvenute fra una guerra mondiale e l'altra. Una mostra di Biasi (catalogo Ilisso), in corso fino al 4 novembre nel complesso del Vittoriano a Roma, consente di verificare la tenuta dell'artista.
L'oblio attorno al nome di Biasi non è stato, comunque, senza motivazioni. Biasi era sardo. Per farsi conoscere gli artisti sardi hanno spesso dovuto dimenticare le loro radici culturali per abbracciarne altre, ma Biasi non ha mai voluto non essere sardo.
Negli anni Venti Biasi ha proposto una visione dell'arte alternativa rispetto a quella dominante del suo tempo. Prima la pittura di Biasi si collocava come una delle manifestazioni italiane più originali della Secessione di derivazione mitteleuropea, dunque nel pieno del Modernismo nazionale. Nel 1913 Biasi partecipa con successo alla mostra della Secessione romana, nel 1914 entra nel gruppo di nuovi incisori vicino alla rivista L'eroica, nel 1917 firma il manifesto «Rinnovandoci rinnoviamo»; intanto a Milano espone più volte con Wildt, Bonzagni, Aloiati, i conterranei Federico e Melkiorre Melis.
Poi negli anni Venti le cose cambiano: Valori plastici e Novecento stabiliscono i nuovi metri di riferimento, sostenendo il recupero di una forma «italiana» in cui il primato rinascimentale del disegno e del volume finisce per marginalizzare le influenze straniere. Biasi, che non rinnega la base iniziale del suo Modernismo, si trova improvvisamente fuori moda. Non se ne duole, insiste anzi a illustrare la sua Sardegna e pretende che essa rimanga al centro dell'attenzione nazionale mentre altrove si inizia a cantare il mito della civiltà italiana. Così la critica fascista finisce per inquadrare Biasi come un «folclorista», un artista che aveva preferito la provincia alla nazione (la Sardegna, ma anche le colonie africane), il localismo alla glorificazione del genio assoluto, latino, classicista della razza italiana. In questo modo Biasi è stato considerato anche dalla critica ufficiale del dopoguerra, a parole antifascista, nelle concezioni di fondo e nei metodi spesso contigua a esso.
In realtà Biasi ha praticato con coraggio e coerenza un tipo di arte che ha coscientemente trasgredito non solo i canoni del classicismo neolatino e modernista cari alla stragrande maggioranza degli artisti italiani che sono stati coinvolti nelle commesse fasciste, ma la stessa ideologia, la stessa retorica propagandistica sostenuta dal regime. La Sardegna di Biasi, povera ma sempre nobile di animo, arcaica, austera anche nello sfarzo di colori vibranti, fatta da una razza piccola e scura, dimostra a chiare lettere di non credere nel mito posticcio di una razza italiana che non esiste, di una cultura unitaria che nel nome di Roma e del Rinascimento vorrebbe cancellare la realtà delle differenze regionali.
Biasi crede a un'Italia moderna, al passo con la migliore Europa culturale, in cui il contributo della diversità locale trovi finalmente riscatto, giusta dignità, come fattore veritiero e indispensabile per il riconoscimento di un'identità nazionale. Un discorso attualissimo ma troppo «controcorrente» per i suoi tempi. Da queste convinzioni Biasi deriva una genuinità ispirativa che difficilmente si riscontra nei suoi contemporanei.
Un'ultima, importante ragione ha rinviato alla scoperta nazionale di Biasi fino a tempi recenti. Nel 1945, a guerra ormai finita, Biasi era stato arrestato a Biella perché creduto una spia dei nazisti e lapidato dalla popolazione inferocita durante il trasferimento da un penitenziario all' altro. Una fine ancora non chiara nelle sue reali motivazioni, tanto più crudele perché avvenuta in nome di una fedeltà a quel fascismo dal quale Biasi aveva avuto più insoddisfazioni che riconoscimenti. Oggi, per la sua arte, è forse arrivato il momento del riscatto.
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grazie per tutto cio' che hai detto del Grande Biasi.Io non conoscevo tutta la sua storia. Ma,invece avevo vito diverse riproduzioni delle sue donne. Ciao,Gabriella
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Il 20 Maggio del 1945 , nei giorni di devastante follia per l’Italia intera , quando dalla contrapposizione di due opposte fazioni esplosero le contraddizioni che portarono alla svolta di non ritorno della guerra civile , veniva lapidato Giuseppe Biasi , considerato da molti il più grande artista sardo della prima metà del Novecento- Biasi aveva partecipato alla prima guerra mondiale come volontario e fu anche ferito. Durante la Seconda guerra mondiale, in seguito a una mostra che tenne a Biella, dove era stato chiamato per decorare il santuario di Oropa nel 1942, si trasferì per il resto della vita. L’8 settembre 1943 in seguito all’armistizio, Biasi che, rimasto uomo di sinistra, era stato anche fascista di sinistra, da sempre repubblicano, trovò naturale schierarsi con l’ultimo fascismo, quello della Repubblica Sociale. A guerra finita fu catturato dai partigiani in una retata a caccia di fascisti e chiuso nel carcere di Biella. Il 20 maggio 1945 con una marcia a piedi assieme ad altri 28 prigionieri fu condotto verso un campo di concentramento ad Andorno Micca, a sei chilometri da Biella; nel centro del paese la colonna di fascisti prigionieri fu fatta segno a insulti, sputi e lancio di pietre; una gragnuola di sassi colpì il sessantenne Biasi che, ultimo della fila, camminava a fatica, aiutato da due giovani prigioniere, perché già malandato. In quattro rimasero feriti dalle sassate, Biasi finì a terra e, lapidato, fu finito con un ultimo colpo di pietra alla testa. Un artista al quale non sarebbe stato possibile imputare alcunché in un ipotetico processo. Giuseppe Biasi fu sepolto dagli amici a Biella e nel 1994 la sua salma fu riportata nella natia Sardegna, a Sassari.
All’inizio degli anni Duemila, recuperandolo dal silenzio ne riparlò Vittorio Sgarbi con un articolo dal titolo
“Troppi sordi per quel sardo”.
Sono ancora troppi, anche fra i presunti specialisti di arte italiana del Novecento, a non conoscere Giuseppe Biasi (1885-1945). Una mancanza grave, perché Biasi è certamente una personalità di assoluto rilievo nelle vicende artistiche nazionali avvenute fra una guerra mondiale e l'altra. Una mostra di Biasi (catalogo Ilisso), in corso fino al 4 novembre nel complesso del Vittoriano a Roma, consente di verificare la tenuta dell'artista.
L'oblio attorno al nome di Biasi non è stato, comunque, senza motivazioni. Biasi era sardo. Per farsi conoscere gli artisti sardi hanno spesso dovuto dimenticare le loro radici culturali per abbracciarne altre, ma Biasi non ha mai voluto non essere sardo.
Negli anni Venti Biasi ha proposto una visione dell'arte alternativa rispetto a quella dominante del suo tempo. Prima la pittura di Biasi si collocava come una delle manifestazioni italiane più originali della Secessione di derivazione mitteleuropea, dunque nel pieno del Modernismo nazionale. Nel 1913 Biasi partecipa con successo alla mostra della Secessione romana, nel 1914 entra nel gruppo di nuovi incisori vicino alla rivista L'eroica, nel 1917 firma il manifesto «Rinnovandoci rinnoviamo»; intanto a Milano espone più volte con Wildt, Bonzagni, Aloiati, i conterranei Federico e Melkiorre Melis.
Poi negli anni Venti le cose cambiano: Valori plastici e Novecento stabiliscono i nuovi metri di riferimento, sostenendo il recupero di una forma «italiana» in cui il primato rinascimentale del disegno e del volume finisce per marginalizzare le influenze straniere. Biasi, che non rinnega la base iniziale del suo Modernismo, si trova improvvisamente fuori moda. Non se ne duole, insiste anzi a illustrare la sua Sardegna e pretende che essa rimanga al centro dell'attenzione nazionale mentre altrove si inizia a cantare il mito della civiltà italiana. Così la critica fascista finisce per inquadrare Biasi come un «folclorista», un artista che aveva preferito la provincia alla nazione (la Sardegna, ma anche le colonie africane), il localismo alla glorificazione del genio assoluto, latino, classicista della razza italiana. In questo modo Biasi è stato considerato anche dalla critica ufficiale del dopoguerra, a parole antifascista, nelle concezioni di fondo e nei metodi spesso contigua a esso.
In realtà Biasi ha praticato con coraggio e coerenza un tipo di arte che ha coscientemente trasgredito non solo i canoni del classicismo neolatino e modernista cari alla stragrande maggioranza degli artisti italiani che sono stati coinvolti nelle commesse fasciste, ma la stessa ideologia, la stessa retorica propagandistica sostenuta dal regime. La Sardegna di Biasi, povera ma sempre nobile di animo, arcaica, austera anche nello sfarzo di colori vibranti, fatta da una razza piccola e scura, dimostra a chiare lettere di non credere nel mito posticcio di una razza italiana che non esiste, di una cultura unitaria che nel nome di Roma e del Rinascimento vorrebbe cancellare la realtà delle differenze regionali.
Biasi crede a un'Italia moderna, al passo con la migliore Europa culturale, in cui il contributo della diversità locale trovi finalmente riscatto, giusta dignità, come fattore veritiero e indispensabile per il riconoscimento di un'identità nazionale. Un discorso attualissimo ma troppo «controcorrente» per i suoi tempi. Da queste convinzioni Biasi deriva una genuinità ispirativa che difficilmente si riscontra nei suoi contemporanei.
Un'ultima, importante ragione ha rinviato alla scoperta nazionale di Biasi fino a tempi recenti. Nel 1945, a guerra ormai finita, Biasi era stato arrestato a Biella perché creduto una spia dei nazisti e lapidato dalla popolazione inferocita durante il trasferimento da un penitenziario all' altro. Una fine ancora non chiara nelle sue reali motivazioni, tanto più crudele perché avvenuta in nome di una fedeltà a quel fascismo dal quale Biasi aveva avuto più insoddisfazioni che riconoscimenti. Oggi, per la sua arte, è forse arrivato il momento del riscatto.
Tutto esatto, probabilmente dall'inizio fino alla fine, proprio perchè sulla sua morte ancora aleggia un'ombra di mistero. Una parte della storiografia lo vede morire di infarto dopo aver ricevuto un colpo di fibbia di cintura alla tempia da parte di uno dei partigiani di scorta....chissà come realmente è andata!!!
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