«Non moriva! Era da giorni che non riusciva a morire... gridava, ehh, voci che non ti dico. Era mia zia, quella, zia Tittia Piliedda». Poi è arrivata lei, la signora della morte, dell’eutanasia, in carne ossa, «s’accabadora», vestita di scialle come una qualunque madre di famiglia. Tzia Malleni la chiamavano nel circondario della Barbagia, «una donna anziana, femina pratica».
È entrata in camera da letto e ha fatto quello che doveva fare. «E io l’ho vista con questi miei occhi» giura oggi Paolina Concas, seduta su una sdraio nella sua casa di Gadoni. Novant’anni, compiuti lo scorso 11 giugno. Ma è successo tutto a Seulo, il suo paese nativo, nei primi anni Quaranta, mentre gli uomini erano al fronte, a combattere la guerra. «Soltanto allora zia Piliedda è morta - riparte il racconto tenuto nello stomaco per una vita -, subito è morta, quando è arrivata tzia Malleni, minuti sono passati, non più di minuti: dopo che le ha ficcato quel piccolo giogo, lei è morta. Morta e basta». Paolina Concas è lucidissima e alquanto vivace. Parla a ruota libera, quasi sempre in limba sarda, davanti all’obiettivo della telecamera e a Dolores Turchi che l’intervista. Ci sono pure due accompagnatori che intervengono di tanto in tanto, Stefano Vacca e Mattia Porru, entrambi di Gadoni.
Tutto registrato, su un dvd allegato adesso a
Ho visto agire s’accabadora, il nuovo libro di
Dolores Turchi, appunto, appena uscito con il marchio delle
Edizioni Iris (130 pagine, 20 euro). «La prima testimonianza oculare di una persona vivente sull’operato de s’accabadora»: questo il sottotitolo del saggio. Un vero e proprio scoop per la studiosa di tradizioni popolari, da oltre trent’anni a caccia di testimonianze dirette, nella sua Oliena come nel resto dell’isola e dell’intero bacino del Mediterraneo.
Autrice di numerose opere di grande successo, pubblicate con la Newton Compton, come l’intramontabile
Leggende e racconti popolari della Sardegna. Ma quella di s’accabadora non è né una leggenda né un racconto popolare, e neppure un mito, come spesso si è creduto: «Non essendo in passato in possesso di testimonianze dirette, alcuni ne negavano l’esistenza, pertanto questa figura è rimasta per molto tempo alquanto controversa» dice Dolores Turchi.
Ora, invece, c’è Paolina Concas che rompe il tabù del silenzio e conferma: «Io l’ho vista». E l’ha vista, s’accabadora, mentre metteva fine alla lunga agonia di una sua zia. «Noi eravamo lì, siamo andate, due nuore sono venute con me, eravamo tre, quattro - racconta la novantenne -. E gridava, la moribonda, c’era il prete che le aveva dato i sacramenti, poi quando il prete è uscito, hanno tolto tutto dalle pareti, i santi, tolti tutti, tutto tutto tutto... il sacramento le colava sulla testa e anche quello le hanno tolto». Così le donne del parentado hanno fatto strada alla signora dell’ultimo respiro, s’accabadora, tzia Malleni.
S’accabadora: dallo spagnolo acabar, mettere fine. «Una donna chiamata per interrompere una lunga agonia che si protraeva per più giorni tenendo il moribondo tra le più atroci sofferenze - spiega la Turchi -. Erano i familiari a chiamare queste donne
“esperte”quando volevano alleviare il loro congiunto da una simile pena, ma molto spesso, se l’agonizzante era cosciente, era egli stesso a richiedere l’intervento di queste persone che, a detta di
molti, non lo facevano a cuor leggero». In altre parole: s’accabadora era la donna incaricata di staccare la spina.
La spina cervicale, s’intende. Proprio come fece a Seulo con Tittia Piliedda.
Soltanto così si spiega la morte istantanea procurata dall’accabadora. «Quella sera lì - continua Paolina Concas - non l’abbiamo vista quando l’ha tirato fuori, perché lo aveva nascosto sotto il grembiule questo jualeddu, ma doveva essere molto piccolo, quaranta centimetri, un piccolo giogo, simile al giogo grande che fanno per i buoi, di legno. Quando gliel’ha messo, alla moribonda, giusto qui, sotto il collo, quella è morta subito. Quando noi abbiamo visto questo ci siamo impaurite... ». Evidente che s’accabadora era femina pratica di anatomia umana: il pezzo di legno sistemato sotto la nuca, infatti, le serviva per spezzare la colonna cervicale con un colpo secco della mano sulla testa della persona in fin di vita. Un solo colpo, deciso, forte, senza tentennamenti, per una morte immediata.
Altrimenti, s’accabadora, «poteva sollevare la testa dell’agonizzante ormai allo stremo delle forze e lasciarla ricadere contro su juale» spiega ancora Dolores Turchi, precisando che i sistemi usati dalle signore della morte, in fondo, erano tanti. «Ma tutte usavano su juale».
Il giogo: simbolo sacro del dualismo anima e corpo, morte e rinascita. Concetti precristiani, propri del culto di Orfeo, diretta derivazione dei culti di Dioniso, praticati nella Tracia e diffusi in Grecia, a Creta, nell’Asia minore e nell’Italia Meridionale, già dal VI secolo avanti Cristo.
Non a caso in Sardegna si credeva che la lunga agonia di chi non riusciva a morire, a passare nell’altro mondo, era dovuta a un sacrilegio. Per esempio: bruciare un giogo. La distruzione del giogo era considerato un peccato molto più grave dell’omicidio o dell’abigeato. In questi ultimi casi, infatti, l’offesa era indirizzata all’uomo; dare fuoco a su juale, invece, significava sfidare dio o comunque gli esseri superiori del regno dell’Aldilà. È così, allo stesso modo, che si spiega l’altra causa che porta l’uomo a scontare lunga e penosa agonia al momento del trapasso: spostare la pietra di confine. Simbolo del limite che passa tra il mondo dei vivi e il mondo delle anime. Spostare quella pietra era perciò un peccato gravissimo, un affronto diretto al dio Terminus, che aveva il compito di vigilare sulla inviolabilità dei confini dei campi. Compito sacro, soprattutto prima che l’editto delle chiudende, 1820, seminasse le lande di Sardegna di così tanti muretti a secco.
«Non meraviglia dunque che fosse s’accabadora a intervenire nel momento cruciale - dice Dolores Turchi -. Era quello il momento in cui la famiglia chiedeva l’intervento dell’accabadora, che aveva il compito di porre fine alla sofferenza del moribondo, un’azione che nella mentalità del popolo veniva considerata come un gesto umanitario, fatto a fin di bene, per agevolare il trapasso».
Per la Chiesa, però, le cose non andavano esattamente così. Nel suo libro, la Turchi, rifacendosi ad un prezioso lavoro di ricerca di
Eliano Cau, Deus ti salvet Maria, riporta interi passi di alcune poesie di padre Bonaventura Licheri, il gesuita che a metà del ‘700 accompagnava il missionario piemontese Giovanni Battista Vassallo, impegnato nell’evangelizzazione della Sardegna centrale. «
Sa bruja accabadora - denunciava Licheri parlando alla sua gente - / de Deus adultèra, / dimonia in terra vera, / mortale pesta. // De su corvu sa festa / faghen prima ‘e s’interru, / fizas sunt de s’ifferru / de mala sorte» («La strega accabadora, infedele a Dio, vera demonia in terra, è simile alla peste mortale. Fanno la festa del corvo prima ancora della sepoltura, sono figlie dell’inferno e della malasorte»). Facile, dunque, capire perché intorno alla femmina accabadora sia sempre rimasto un clima freddo e omertoso.
Lo stesso Alberto Della Marmora, il primo autore che mise nero su bianco su questo tema particolarmente delicato, fu costretto a ritrattare le affermazioni riportate nel suo Voyage en Sardaigne, del 1826. Quando uscì la seconda edizione del libro, nel 1839, la notizia dell’accabadora era sì data, ma soltanto in forma dubitativa e non più come una certezza assoluta. Le polemiche, del resto, inguaiarono persino l’abate Vittorio Angius. Anche lui, quando compilò le voci sarde del Dizionario di Goffredo Casalis, tra il 1832 e il 1848, dovette fare i conti con i benpensanti che preferivano tacere sull’esistenza dell’accabadora. Ma l’uso del giogo continuò comunque, e i
viaggiatori dell’Ottocento, dall’inglese William Henry Smyth fino ad Antonio Bresciani (anche lui abate gesuita), continuarono a parlarne quasi sottovoce. Oggi, invece, Dolores Turchi non solo scova una testimonianza oculare, clamorosa, quella di Paolina Concas classe 1918, ma trova tracce della «dimonia in terra» persino nei sinodi diocesani del XVI e XVII secolo. E ancora: trova i segni lasciati dalla «sacerdotessa della morte», come pure dal giogo, anche fuori dall’isola dei nuraghi, nell’Alpago, in Friuli, in Sicilia, e pure in Francia, nella regione del Perigord e in Sologne. Insomma: con il suo nuovo libro Ho visto agire s’accabadora, Dolores Turchi scava nella storia e nelle religioni precristiane, frantumando un tabù rimasto finora inviolato.