Nota Bene: In alcuni paesi dell'OGLIASTRA , in un passato non tanto lontano, si confezionava e mangiava un raro PANE DI GHIANDE. Le ghiande, opportunamente tostate e macinate, erano mescolate con argille, che ne moderavano l'acidità ed il sapore allappante. Questo tipo di pane viene collegato da alcuni studiosi a riti magico-propiziatori che prevedevano la "geofagia", ovvero l'ingerimento di terra, ma e' stato probabilmente conservato anche per l'atavica penuria alimentare che affliggeva i poveri delle popolazioni dell'Interno.
Flavia....con l'unica differenza che quello di Renato Pozzetto era ultramoderno....il mio palazzo era un po' fatiscente!!!!! Peccato non avere mai fatto fotografie dell'appartamento.....rido ancora quando ci penso!!!
Siamo sardi Siamo spagnoli, africani, fenici, cartaginesi, romani, arabi, pisani, bizantini, piemontesi. Siamo le ginestre d'oro giallo che spiovono sui sentieri rocciosi come grandi lampade accese. Siamo la solitudine selvaggia, il silenzio immenso e profondo, lo splendore del cielo, il bianco fiore del cisto. Siamo il regno ininterrotto del lentisco, delle onde che ruscellano i graniti antichi, della rosa canina, del vento, dell'immensità del mare. Siamo una terra antica di lunghi silenzi, di orizzonti ampi e puri, di piante fosche, di montagne bruciate dal sole e dalla vendetta. Noi siamo sardi. Grazia Deledda.
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La prima volta che vidi Marco pensai fosse tedesco. Forse fui influenzata dal fatto che in casa c’erano un tedesco e un sardo, per cui non essendo italiano, doveva per forza di cose venire dalla Germania. Ero stata invitata da Salvatore ad andare a vedere la nuova casa che avevano appena affittato a Jersey City, sull’altra sponda del fiume Hudson che segna il confine fra Manhattan e lo stato del New Jersey. Si erano conosciuti durante una internship alle Nazioni Unite qualche anno prima e ora si erano ritrovati tutti quanti a New York per questioni di lavoro, per cui decisero di andare a vivere insieme e dividere le spese. Quando arrivai a casa loro, un odore di cibo aleggiava nell’aria e notai subito Marco alle prese con pentole, mestoli, piatti e posate. Il profumo era invitante e l’aspetto era da acquolina alla bocca. “Dove hai imparato a cucinare sudamericano?” gli chesi dopo aver notato il guacamole e altre pietanze tipiche della zona. “Non troppo difficile se pensi che sono originario del Costarica”. Quella volta li non gli prestai attenzione piu di tanto e la serata trascorse all’insegna del mangiare e del bere. Lo incontrai di nuovo la sera che decisero di avere un “house-warming party” ossia una festa per celebrare la nuova casa con amici e conoscenti, giusto due settimane dopo il nostro primo incontro. Eravamo forse una quarantina di persone, ma la mia concentrazione era rivolta tutto su Marco, che scopri’ essere un interlocutore affascinante, e a guardarlo bene, non era affatto male neppure come uomo! Da quel momento in poi il nostro divento’ un vero e proprio circolo di amici e cominciammo a frequentarci regolarmente. Il mio interesse per Marco cresceva di giorno in giorno e me ne resi conto quando il giorno di San Valentino si presento’ in negozio da me (lavoravo ancora da Jaeger) con una rosa in mano. “Ho pensato ti facesse piacere” “Piu di quanto immagini”. Fu un susseguirsi di telefonate e di incontri fino a quando prendemmo atto (io prima di lui!!) che la nostra era ormai diventata una “storia” seria. Durante la settimana lui restava da me, visto che aveva continuato il suo lavoro all’ONU e quindi veniva piu comodo arrivarci quando si era gia’ in citta’, mentre il venerdi sera si andava a Jersey City, che pur essendo a dieci minuti di treno da Manhattan, era come spostarsi dalla citta’ alla campagna (non proprio campagna, ma e’ giusto per rendere l’idea). Dopo quasi due anni dall’inizio della nostra relazione, ci rendemmo conto che il mio monolocale non era fatto per la vita a due. Marco aveva cominciato a lasciare le sue cose nel mio appartamento e lo spazio diminuiva a vista d’occhio ogni giorno di piu. Era giunta l’ora di passare a un livello successivo, sia per quanto riguardava la sistemazione sia in termini di relazione. Trovare un posto in cui vivere che avesse l’approvazione di entrambi fu un’impresa. Lui dava piu importanza allo spazio, io alla locazione. C’erano alcune zone della citta’ che effettivamente non erano tra le piu’ rinomate e il solo pensiero di dover tornare a casa da sola la sera non era molto allettante. Non mi interessava avere qualche metro quadro in piu o spendere qualche soldo in meno. Preferivo il senso della sicurezza a tutto il resto e fu qui che Marco ebbe modo di testare la mia testardaggine per la prima volta, perche’ ovviamente la spuntai io.
Il nostro appartmento piccolo ma carino, si trovava nella zona alta di Manhattan, cosi alta che praticamente eravamo a qualche isolato da Harlem. Era su due piani: piano terra e seminterrato. Al piano terra la porta d’ingresso si apriva su una saletta piccola ma accogliente con il mattoni a vista nella parete di fronte. Una piccola scala in legno perpendicolare al pavimento permetteva l’accesso a un’alcova dove avevamo sistemato un materasso e ricavato cosi la “camera degli ospiti. L’angolo cottura, che era si un angolo ma decisamente piu agibile di quello nel mio vecchio appartmento, rimaneva a destra e, in fondo, il bagno. Una scala a chiocciola in ferro battuto portava invece al “basement” dove c’era la camera da letto e un doppio servizio, che fu adibito, nonostante le proteste, a scarpiera. Marco soleva prendermi in giro per la mia passione per le scarpe, lui che ne aveva un paio nere e un paio marroni, e mi domandava in continuazione se mi fossi candidata al premio “Imelda Marcos”. Avevamo dei compiti ben definiti in casa: se lui cucinava, cosa che gli riusciva benissimo e per la quale aveva una passione sfrenata, io ero incaricata di lavare i piatti. Io d’altra parte avevo invece la passione per la “manovalanza”, per cui ero quella girava armata di viti, chiodi, martello e trapano. Si faceva tutto insieme come in una squadra ben affiatata, se non fosse che la mia insana gelosia comincio’ a insinuarsi sempre piu’ frequentemente nel nostro rapporto. Ero convinta che tutte le donne lo guardassero con gli stessi miei occhi e percepivo i loro sguardi, il loro pendere dalle sue labbra ogni volta che si ritrovava a parlare con una rappresentante del sesso opposto. Aveva davvero questo potere Marco e la sua voce calma e profonda, il suo modo di esprimersi e il suo modo di presentarsi erano davvero come miele per le api, che gli ronzavano intorno in continuazione. Lui dal canto suo non disdegnava le attenzioni, essendo come si definiva lui stesso “un uomo capace di apprezzare”. Arrivammo al punto di rottura dopo l’ennesimo litigio. Mi guardo’ con le lacrime agli occhi e mi disse: “Ti amo, ti amero’ per sempre......ma la nostra convivenza e’ diventata un inferno. Non posso piu andare avanti cosi. Questa e’ la fine del nostro rapporto”. Il mondo mi crollo’ addosso. La testa sembrava volere scoppiare da un momento all’altro. Non riuscivo a pensare, non riuscivo a capacitarmi che da quel momento in poi Marco non avrebbe piu fatto parte della mia vita. Non avrei piu provato la gioia che provavo nel tornare a casa la sera, sapendo di trovarlo li o sapendo che sarebbe arrivato li a momenti. Lo stomaco sembrava essere attanagliato da una morsa infernale, ogni boccone che ero costretta a mandar giu per poter sopravvivere mi costava uno sforzo sovrumano. Spesso mentre attraversavo la strada, mi domandavo se buttarmi sotto una macchina mi avrebbe assicurato una morte istantanea. Quella notte, in preda alla depressione piu cupa e con la paura di arrivare davvero a fare qualcosa di molto stupido, mi alzai e accesi il computer. Prenotai il mio biglietto per tornare in Italia e con le lacrime che continuavano a scendere ininterrottamente e mentre rimpievo le valigie, promisi a me stessa che non avrei mai piu permesso a nessuno di entrarmi nel cuore in quella maniera. La mattina successiva, con i bagagli fuori dalla porta, diedi un ultimo sguardo a quella che era stata casa mia, casa nostra, sapendo che non sarebbe mai stata piu la stessa cosa. Mi chiusi la porta alle spalle, il cuore gonfio di tristezza da voler scoppiare e mi avviai, a testa bassa, verso un nuovo capitolo della mia vita.
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Inserito il - Oggi : 21:52:29 --------------------------------------------------------------------------------
Giaaaannnnaaaa......
ma questo effetto sonoro che dovresti postare????
Bohhh.... Io parto con la DECIMA PARTE!!!!!!!!!!!!
I tre mesi trascorsi in Italia non avevano guarito le ferite, ma se non altro avevano fatto in modo che si attutisse il dolore. Ricordo la prima sera a Firenze, quel freddo giorno del novembre appena passato. Mia sorella decise di portarmi fuori a cena per cercare di mantenere la mia mente occupata. Mentre attraversavamo le vie della citta’, non potei fare a meno di notare le strade deserte. “Ma la gente dov’e’?” chiesi stupefatta. “Dove vuoi che sia a quest’ora? E’ martedi...sono le nove di sera...saranno in casa a cenare o se e’, in qualche locale!!” Eh si, Firenze non era New York dove a qualsiasi ora del giorno o della notte, durante qualsiasi giorno della settimana, con qualsiasi temperatura, vedi la gente circolare per strada. Ma si sa, la solitudine e’ piu uno stato mentale che fisico e io allora mi sentivo davvero sola. In una citta deserta, ero sola piu che mai. Tornai negli Stati Uniti agli inizi di marzo, quando mi senti’ pronta ad affrontare il mondo. Avevo tantissime cose da fare e da sistemare. Prima di tutto dovevo cercare un luogo in cui vivere. Marco aveva tenuto l’appartamento e io vi avevo lasciato parecchie delle mie cose. Mi chiese se volevo che fosse lui ad andare via cosi io non mi sarei dovuta preoccupare di trovare un’altra sistemazione. Non avrei potuto fare una cosa del genere. Non avrei mai potuto vivere nel luogo in cui, nonostante tutto, eravamo stati felici e dove ogni cosa, ogni angolo, ogni piccola crepa, aveva una storia che mi parlava di lui. E qui arrivarono in soccorso Herbert e Vikram. Herbert era l’ex coinquilino di Marco, nonche’ amico comune. Un anno prima era tornato in Germania ma il suo lavoro lo stava di nuovo portando a New York e aveva bisogno di trovare una casa. Vikram, un ragazzo indiano che avevo conosciuto appena arrivata a New York e anche lui ormai entrato a far parte del circolo dei nostri amici, doveva lasciare il suo vecchio appartamento. Colsi la palla al balzo, soprattutto perche’ nelle mie condizioni psicologiche non volevo restare da sola, e trovammo un appartamento tutti insieme a Midtown, sulla 30th Street e Park Avenue. Lo scelsi io ovviamente. C’erano tre camere da letto, due bagni, una sala abbastanza grande, una cucina ampia e moderna e un balcone con vista sull’Empire State Building. Le finestre erano enormi e davano luminosita’ a tutto l’appartamento. Abitavamo al penultimo piano, il diociottesimo, per cui la nostra panoramica non era ostruita dai palazzi circostanti, dato che erano tutti quanti di qualche piano piu basso. La palazzina era nuova e non tanto grande, appena tre appartamenti su ogni piano, la zona era tra le piu rinomate della citta’ e i portinai si alternavano ventiquattro ore su ventiquattro in modo da assicurare la sicurezza degli inquilini.
In casa i ragazzi mi chiamavano “The sergeant”, ossia “il sergente” per la mia mania di volere sempre tutte le cose in ordine. “Nelle vostre camere potete avere tutto il casino che volete, le zone comuni vanno rispettate!”. La nostra amicizia col passare del tempo si solidifico’ e sia Herbert che Vikram si presero cura di me come se fossimo parte della stessa famiglia. In effetti lo eravamo una famiglia, perche’ sapevamo che in caso di necessita’, potevamo sempre contare l’uno sull’altro e la dimostrazione di tali sentimenti non tardo’ ad arrivare. Dovevo cercarmi un lavoro, ma non volevo tornare in un negozio. Non volevo piu lavorare sabato e domenica, ma considerato che l’unica esperienza negli Stati Uniti era in quel campo, la mia impresa era decisamente ardua. I miei amici non mi fecero mancare niente e mai una volta ebbi l’impressione di essere un peso per loro. Quando Vikram si ammalo’, dovetti rimboccarmi le maniche e ricambiare il favore. Gli fu diagnosticato un avanzato disturbo bipolare e per piu di un mese fu internato in ospedale sotto le cure attente dei medici. Una volta fuori dall’ospedale, non essendo in grado di prendersi cura da solo e per assicurarmi che seguisse scrupolosamente le indicazioni fornite dai medici, mi trasformai in crocerossina. La sua famiglia decise che era il caso che lui tornasse in India, dato che almeno per il momento sarebbe stato impossibilitato a lavorare e pagarsi percio’ le costosissime cure. Prima di partire alla volta di Delhi, il suo capo volle che Vik passasse a salutarlo e gli chiese di portare anche me con lui. AJ era anche lui originario dell’ India e tempo addietro era riuscito a costruire un impero con la telefonia mobile. La sua Compagnia forniva i telefoni cellulari e blackberries alle piu grosse agenzie di Stato e alle grandi compagnie finanziarie con migliaia di dipendenti. Mi disse che aveva apprezzato la maniera in cui mi ero presa cura del mio amico e dato che aveva saputo che ero “jobless” ossia disoccupata, mi aveva chiamato per offrirmi un lavoro. Io non conoscevo assolutamente nulla del mondo dei telefoni portatili, non possedevo neppure un cellulare e soprattutto non avevo la piu pallida idea di cosa avrei dovuto e potuto fare. Glielo dissi senza nessun problema, anche perche’ non avrei certo potuto nascondere a lungo la mia ignoranza nel settore. “Sono piu che sicuro che non mi deluderai. Hai dimostrato di essere una persona in gamba e mi fido del mio istinto”. Era l’agosto del 2001. Un mese dopo, il mondo avrebbe vissuto una delle tragedie piu memorabili della storia e io ero li a viverla in prima persona.
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Leggere le tue storie è come essere trascinati in un viaggio nel tempo e nello spazio, come vedere il film che avremo voluto vivere. Che dire:brava, alla prossima puntata. Complimenti.
Ho letto adesso la tua DECIMA PARTE sei bravissima scrivendo, mentre leggo sembra di viverle in prima persona. Lo sò che è tardi ma non vedo l'ora di leggere l'UNDICESIMA PARTE specialmente quel 11 settembre del 2001 che mi ricordo benissimo anche io visto che proprio quel giorno verso le 14.00 ero appena rientrata dall'ospedale con la bambina che aveva avuto la gastroenterite, ho acceso la televisione e...........il resto lo sapete. Comunque scrivi se puoi il più presto possibile.
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Ohhh ziama... certe cose ti passano davanti e non ti rendi davvero conto come riesci a cambiarle grazie alla forza inaspettata... Un bacio grosso, sò che scrivere tutto questo ha un costo impagabile, dentro al cuore.
Erano le sette del mattino. Come al solito mi svegliai prima che l’allarme della radiosveglia entrasse in azione. Penso fosse una reazione psicologica perche’ il DONG DONG DONG entrava nelle orecchie a disturbare anche i sonni piu profondi. Da trauma insomma. Non so perche’ decisi di chiamare i miei genitori. Il giorno di rito per la telefonata settimanale e’ il sabato, ma quel giorno avevo voglia di sentirli. “Ciao papa’, come stai?” “ E ita cosa che chiami di martedi? Sei caduta dal letto?” “Macche’...mi sono svegliata prima e visto che ho qualche minuto, ho deciso di sentirvi...Tutto bene? “Si, tutto bene....mamma e’ di la’, aspetta che te la passo!”. Telegrafico come al solito, perche’ era sempre preoccupato che spendessi troppi soldi.
Ingurgitai il caffe’ velocemente dato che ero puntualmente in ritardo, acchiappai la borsa al volo e usci’ di casa. Dovevo essere al lavoro alle 9 ed erano gia’ le 8:30. Avrei dovuto prendere la metropolitana numero 6 sino alla 53rd Street, li cambiare e saltare sulla “E” che attraversava la citta’ e poi, sulla 49th Street e 8th Avenue, saltare sul’autobus che mi avrebbe scaricato all’angolo col mio ufficio. Il primo pezzo del tragitto si svolse senza grossi problemi ma una volta giunta sulla 49th Street, aspettai invano che arrivasse l’autobus. Continuavo a sbirciare l’orologio.....Cazzzzz.......Erano gia’ le 8:55 e ormai la frittata era fatta. Anche stavolta sarei arrivata in ritardo. Diedi un’ultima sbirciata alla strada ma dell’autobus neppure l’ombra. In lontananza sentivo il rumore spiegato di sirene rimbombare nell’aria ma non ci feci caso piu di tanto. Vidi un taxi arrivare, mi sporsi in avanti e col braccio alzato gli feci cenno di fermarsi. Stava ascoltando la radio, una voce concitata diceva qualcosa a proposito di un aereo...le Twin Towers...... Chiesi al tassista cosa fosse successo e mi rispose che a quanto pare un aereo era andato a schiantarsi su una delle torri. Pensai che fosse come al solito un’esagerazione dei media. Pensai a un piccolo aereo da turismo che sorvolava la baia vicino al Financial District con problemi al motore. Pensai a come fosse possibile permettere a un aereo, pur se piccolo, di volare a bassa quota cosi vicino alla citta’. Arrivai al lavoro tutta trafelata. Erano appena passate le 9:00. Avevo gia’ in mente qualche scusa da sbolognare al mio capo sul perche’ del mio ritardo, ma una volta li, mi resi conto che l’attenzione della gente era rivolto verso il grande televisore a schermo piatto dentro la sala conferenze. “Hai sentito? Due aerei si sono schiantati contro le torri gemelle!” “Echecazzz...addirittura due ora....le solite esagerazioni.....mentro ero sul taxi si parlava di uno.....ma sono due Chessna che si sono incrociati in aria?” “NOOOOO....sono due 747....si sono infilati nelle torri...prima uno....e pochi istanti fa un altro.....e’ una tragedia....siamo sotto attacco.....”
Presi in mano il telefono, ancora non esattamente certa di cio’ che stava succedendo, ma sapevo che la prima cosa da fare era avvisare i miei che stavo bene. “Papa’, stai guardando la televisione? “No, perche?” “Beh....qualsiasi cosa stia succedendo.....io non sono li!” Chiusi la comunicazione e quella fu l’ultima volta che fui in grado di parlare con i miei genitori nell’arco delle prossime trentasei ore.
Intanto la West Side Highway, la strada che costeggia la zona ovest della citta,’ era diventata un via vai di ambulanze e vigili del fuoco che si dirigevano a sud a tutta velocita’. Il mio ufficio era proprio lungo il fiume e da li potevamo vedere il fumo causato dall’impatto degli aerei e dal conseguente incendio, levarsi alto nel cielo... La televisione continuava a trasmettere notizie devastanti....leggevo il terrore negli occhi dei miei colleghi e piu arrivavano aggiornamenti e piu il terrore cresceva.
Marco mi chiamo in ufficio. “Dove sei? Stai bene?” “Io si...dimmi di te....” “Stanno facendo evacuare le Nazioni Unite....”
Intanto le notize continuavano ad arrivare: traffico aereo bloccato in tutta la nazione.......aerei ancora in volo costretti ad atterrare nel piu vicino aeroporto e poi l’ultima.....un altro Boeing che si schianta contro il Pentagono......
La mia amica Dalia fu la prossima a chiamare. “Ma hai visto cosa sta succedendo?” la voce singhiozzante “Ho paura!” “Cerca di stare calma...dove sei ora?” “A casa.....MG .....le torri.....vengono giu....vedrai.....non resisteranno....verranno giu!!” “Ma cosa vai a pensare ...non possono venire giu....e’ impossibile....ti rendi conto di quel che dici?” Mentre pronunciavo queste cose, la senti urlare dall’altra parte del telefono. Mi girai giusto in tempo per vedere nello schermo la prima torre sgretolarsi al suolo come se fosse fatta di cartone. La cornetta mi cadde dalle mani e il sangue mi si gelo’ nelle vene.
Le strade, i ponti e i tunnel che collegano Manhattan al resto del mondo vennero chiusi. A nessuno era permesso entrare o uscire dalla citta’ a bordo di un mezzo automatizzato per cui chi viveva in uno degli altri sobborghi, fu costretto a tornare a casa a piedi. Il ponte di Brooklyn era l’immagine ricorrente trasmessa dalle televisioni e i volti della gente non facevano presagire nulla di buono. Nonostante tutto, le persone che in quel momento si trovavano in quella zona, sgomberarono l’area senza grandi sommosse. Il mio capo mando’ tutti a casa e io, che vivevo venti isolati a sud del mio lavoro, mi ritrovai a percorrere la strada nel senso inverso a quelli che invece scappavano da Downtown. La scena che stavo vivendo era surreale. Mi sembrava di essere in un film e che non fossi veramente io e che le scene che stavo vivendo stavano succedendo da un’altra parte e non nella mia citta’. Dalia riusci’ miracolosamente a chiamarmi di nuovo al telefono. “Vieni a casa mia, siamo tutte qui”. La sua casa era giusto quattro isolati prima della mia e quando mi apri’ la porta, trovai ad aspettarmi tutte le mie amiche. Passammo il resto della giornata a cercare di chiamare le nostre famiglie, i nostri amici che sapevamo lavoravano nelle torri e intanto la televisione continuava a mandare immagini sempre piu drammatiche. I nostri volti erano incollati agli schermi, le lacrime venivano giu incessantemente senza trovare la maniera di riuscire a fermarle. Seguimmo tutte le prime fasi del soccorso....pregando e sperando che si riuscissero a tirare fuori i sopravvissuti, illuse ancora che qualcuno avesse davvero potuto sopravvivere a un tale inferno. Gli ospedali erano all’erta, tutto il personale richiamato al lavoro in previsione dei soccorsi che si sarebbero dovuti apportare ai feriti. Purtroppo l’unica cosa che arrivava in ospedale erano frammenti di corpi, e le celle frigorifere che li contenevano in attesa di identificazione, stazionarono per anni a venire a due isolati da casa mia, dove si trovava appunto l’NYU Hospital che essendo il piu grosso, era stato scelto come centro di “smistamento”. Ci addormentammo tutte li, chi sul letto, chi sui cuscini buttati per terra, chi sulle sedie con la testa poggiata al tavolo. La televisione rimase accesa tutta la notte e ogni tanto qualcuna apriva gli occhi per vedere se c’erano novita’. Ogni vita salvata era una celebrazione, ma ci fu davvero ben poco da celebrare. La mattina successiva sull’intera citta’ regnava un silenzio di tomba. Bettina ed io uscimmo prestissimo di casa, mentre le altre ancora dormivano. Avevamo deciso di andare a Downtown a offrire una mano d’aiuto, non troppo sicure di cio’ che avremo potuto fare o di cio’ che avremo trovato. I muri dei palazzi lungo le strade erano gia’ stati tappezzati con le foto dei dispersi, e dopo una lunga notte insonne, le loro famiglie distribuivano volantini con un numero da chiamare nel caso si avessero notizie, nel caso qualcuno avesse visto i loro cari uscire dalle torri e mettersi in salvo.
Non riuscimmo ad andare oltre Chinatown. La polizia aveva sbarrato le strade per permettere ai soccorsi di operare senza troppi disturbi. Quelle che sino a ventiquattro ore prima erano considerate uno dei simboli d’America non esistavano piu e con loro furono distrutte quasi tremila vite, senza contare le vittime degli altri attacchi. Ricordo che ogni volta che uscivo alla stazione metropolitana di Fulton Street alzavo gli occhi al cielo e le torri erano li, davanti a me, in tutta la loro imponenza.
Ancora oggi, appena esco dalla stessa stazione, il mio primo istinto e’ quello di guardare in alto ma al loro posto c’e’ solo l’azzurro del cielo.
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Ricordo che ogni volta che uscivo alla stazione metropolitana di Fulton Street alzavo gli occhi al cielo e le torri erano li, davanti a me, in tutta la loro imponenza.
Ancora oggi, appena esco dalla stessa stazione, il mio primo istinto e’ quello di guardare in alto ma al loro posto c’e’ solo l’azzurro del cielo.
Che brividi... Grazie Ziama per la tua appassionata e significativa testimonianza.
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