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Nota Bene: Seulo - Sa Stiddiosa. Dall'alto di una parete calcarea a picco sul Flumendosa, coperta da delicati Capelvenere, le acque di una sorgente cadono a pioggia, creando ai primi raggi solari un suggestivo fenomeno di iridescenza.



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 Tonara intorno al millenovocentottanta

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V I S U A L I Z Z A    D I S C U S S I O N E
Nigel Mansell Inserito il - 05/11/2007 : 23:18:48
Tonara intorno al millenovocentottanta

Ricordo mio padre, rinasceva sardo ogni volta che approdava sull’isola,
la sua parlata diventava limba fluente, esprimendo pensieri
che aveva comunque e sempre concepito in sardo.
Idee e sensazioni che non potevano librarsi tra le alpi innevate,
genti straniere ed una moglie piemontese, forse non avrebbero compreso.

Ricordo la gioia di noi, piccoli ed entusiasti, nel rivedere il mare,
finalmente quella linea blu all’orizzonte, finalmente l’immenso,
una massa enorme di acqua salata che respirava ritmica.
Il traguardo di massacranti viaggi in auto improvvisate,
od in treni stracarichi che sull’isola diventavano postali da far west.

Ricordo la nostra tristezza nel dover abbandonare le spiagge,
per percorrere assurdi zig-zag nell’arida campagna, perché non tirare diritto?
Si scalava la Barbagia, fino ai piedi del Gennargentu.

Ricordo il cartello: Tonara; la fine di un viaggio interminabile.
Ricordo il verde degli alberi, le montagne rigogliose, paradiso nel deserto
di un’arida Sardegna, senz’acqua, senza alberi, senza speranza.

Un’isola che ricordo arsa ed assetata, puntellata di querce da sughero denudate,
il canto assordante delle cicale, e più su, Nuraghe come mute sentinelle.
Testimoni di lande immutabili, sempre pronte a bruciare,
ogni estate in predicato di essere sacrificate dai suoi figli piromani.

Ricordo una vecchia, in attesa, affacciata alla finestra,
mi dicevano ecco tua nonna, ma la mia era sul Lago Maggiore.
Ricordo la paura, la mia immaginazione che ne aveva fatto una strega.
Scura ed intraducibile, prigioniera di un costume diventato completamente nero,
l’esternazione del dolore per un lutto, che oramai era diventato eterno.

Ricordo mio zio diplomato, impiegato ad Ottana, nel polo chimico,
quello che poi ho imparato a chiamare cattedrale nel deserto.
Ricordo l’ammirazione per quell’intellettuale, unico studiato di quattro figli.
Tre su quattro carabinieri, inghiottiti dal continente con le loro divise,
chiamati a difendere uno stato che li aveva sempre dimenticati.

Ricordo la fierezza degli anziani tonaresi, vestiti di fustagno,
panciotto giacca e berritta, pattada e bastone, sotto il sole di agosto,
afa che a noi faceva venire solo voglia di spogliarci.
Ricordo le tonaresi, le mogli, cinte da splendidi costumi, oro e porpora, fiori e ricami,
contrasti su scuri ed antichi tessuti, si pavoneggiavano nella via,
chiassose e chiacchierone, ora pettegole, ora giudici inflessibili.
Progenie di Ichnusa, barbaricini che non hanno mai avuto dominatori.


Lo stesso orgoglio di tutti gli antichi popoli, la medesima calma e saggezza,
quelle che ho imparato a riconoscere, negli occhi e nei gesti, visti alla televisione,
di afgani umiliati, di curdi perseguitati, di iraniani sottomessi o di irakeni sconfitti…

Ricordo l’odore che tutto impregnava, la puzza di numerose ed enormi forme di pecorino,
su casu, che tutti gelosamente custodivano negli umidi piani inferiori delle loro case.
Ricordo le ricette frugali, frutto di furbizie ed espedienti da pastori,
il pane, che al contrario della carta da musica sarda, lì è molto più spesso.

Ricordo il torrone, dono del miele del sopramonte, tempestato di croccanti mandorle.
Ricordo le scatole colorate che lo annunciavano, piccole e rettangolari, inconfondibili.
Facevano la nostra gioia quando i parenti, torronargiu ambulanti, le facevano apparire:
colpi sapienti di lama lo spezzavano in tanti bocconi, allora le nostre mani si allungavano,
per spaccarci i denti, per legarci le bocche ed incollarci le dita, per farci felici,
mentre le nostre mandibole instancabilmente lo consumavano.

Ricordo la gente, alla sera, seduta davanti a casa, tranquilla e sociale,
attenti e loquaci, curiosi di sapere chi fossero questi continentali.
Accontentati, si scambiavano l’informazione: su figgiu de Mario Proccu,
perché loro traducevano anche i cognomi, così era.

Ricordo la barberia del paese, affollata da uomini lì solo per leggere il giornale,
per discutere di politica, di sport, del Cagliari, per rimpiangere Giggi Riva.
Con la sua faccia scavata, sorrideva a tutti, da foto in bianco e nero datate 1969-70,
dalle pareti di molti locali, per essere in tutti i cuori: per una volta i sardi erano stati i migliori.

Ricordo un popolo di montagna, lungimirante nel perseguimento del rimboschimento,
orgoglioso dall’alto dei suoi mille metri, tanto che Giustino il costruttore di campanelle,
gli aveva dedicato una locanda, dove la birra scorreva come in Germania.

Ricordo i baci appicicosi dei parenti, le loro facce sudate, e le solite domande,
la noia di lunghi pomeriggi assolati quando tutti erano nascosti nelle case,
per dormire in attesa che quel sole che li minacciava, diventasse meno spaventoso.

Ricordo il vanto del paese, Peppino Mereu, morto solo e dimenticato nella malattia,
incompreso in vita, che da morto non volle accettare il cimitero del paese.
Ora le sue parole sono in tutto gli angoli, i suoi versi di sfida,
le sue grida di denuncia, i suoi canti di amore, anche per Galusé.
Un tempio dove noi si andava ogni giorno per abbeverarci,
certi di trovarvi i tonaresi che come tuareg nelle oasi,
veneravano il miracolo dell’acqua sempre nuova, e ne gioivano insieme.

Ricordo la sensazione di decadenza, di abbandono, di mancanza di futuro.
Era in tutto il paese, nelle case abbandonate, rivissute sole nelle vacanze,
nelle persone che volevano solo scappare, ed in quelle che erano fuggite lontano,
a Casteddu, Nugoro, o quasi sempre in continente.

Un paese che sopravviveva solo nei ricordi giovanili degli emigrati,
stuprato dagli infissi in alluminio anodizzato, dalle case incompiute,
dagli edifici senza tetti e mai intonacati, dalla mancanza di strutture,
dagli scempi edilizi che deturpavano tutto, dalla mancanza di arte,
pareva una paese sopravvissuto a paurosi bombardamenti.
Un paese affossato dalla volontà di non cambiare e non fare nulla,
dall’indolenza e dal sospetto per le novità.

Ricordo con nostalgia le miei origini, io che sono nato all’ombra dell’Arco di Augusto,
e vivo sul lago rimpiangendo il mare, sotto un sole pallido che non riesce a farmi felice.


Nigel Mansell
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sarrabus72 Inserito il - 06/11/2007 : 18:55:14
Ho letto tutto d´un fiato....mi é venuta la pelle d´oca !
Penso che in questo bel racconto ci identificheremo in parecchi !!!

Ciao
annika Inserito il - 06/11/2007 : 18:46:34
Bellissima descrizione !!! e quanta nostalgia .... Bravo..
Albertina Inserito il - 06/11/2007 : 18:26:02
Complimenti, veramente un piacere leggerti.
Un tuffo nel passato, una nuotata nei ricordi.
Bellissime le descrizioni che esaltano la fierezza del popolo sardo.
Istella Inserito il - 05/11/2007 : 23:39:46
Mi piace molto ciò che hai scritto!!! Leggendo le tue parole ho proprio avuto la sensazione essere là... a Galusè.
Benvenuto
Istella

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È più facile disintegrare un atomo che un luogo comune.
(A. Einstein)
ziama Inserito il - 05/11/2007 : 23:32:34
Bello....mi piace il tuo modo di raccontare le cose....

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