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 Pasqua 1961 (Miniere)

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V I S U A L I Z Z A    D I S C U S S I O N E
Sandro Renato Garau Inserito il - 03/02/2008 : 17:09:09
Se ci sta vi invio un racconto
Sandro Renato
[h1] PASQUA 1961
(Tra Passione e Resurrezione: una piccola storia)

La Seconda Grande Guerra è finita. Nei villaggi che circondano le miniere di Montevecchio e in quelli a bocca di pozzo la gente ricomincia a tentare di vivere un’esistenza normale.
Le cacce al cinghiale e al cervo, organizzate dalla Direzione delle Miniere, per sfamare gli abitanti di Gennas e degli altri cantieri, sembrano ormai un ricordo. Sono passati solo quattro anni dalla tragedia. Il rumore degli aerei da combattimento è sostituto dal fragore delle mine. Il cigolio delle gabbie che scendono e salgono dai pozzi è ripreso con regolarità. Il ferro è rimodellato ed addolcito all’uso nelle officine. Gli uffici della Direzione hanno riaperto i battenti. I dirigenti sono tornati ai loro posti dopo la paura. I giovani e gli adulti, dopo anni di guerra al fronte, per qualcuno campi di concentramento, deportazione e prigionia, sono tornati a popolare i paesi e le campagne.
Le donne si ritrovano nei soliti posti: attorno a qualche pozzo in case private o al fiume a fare il bucato, presso le vicine ad impastare farina per il pane e i dolci, al mercato, nei crocicchi delle strade, in chiesa. Commentano gli ultimi avvenimenti. La vita, anche se ad alcune di loro ha rubato qualche affetto, riprende a fluire. Una vena di speranza, che col tempo s’ingrossa, percorre i villaggi.
All’uscita dalla chiesetta di Santa Maria, dopo il vespro, parlano sottovoce.
- Speriamo riassumano Salvatore adesso che è finita la guerra. – sospira Rosa con Silvia e Maria, mentre percorrono l’acciottolato che le conduce verso la parte alta del paese dove le attendono i molti figli.
- Il mio Giovanni vorrebbe andare a lavorare in miniera. Almeno quello è un posto sicuro. Non può continuare a lavorare a giornata con ziu Arremundiccu. Lo paga giornaliera è misera, e lavora dall’alba al tramonto come un galeotto. – aggiunge Silvia.
- Anche Efisio si lamenta. Lavora sì in miniera, ma a volte è difficile arrivare alla fine del mese. Sei giorni la settimana. Senza tregua. I bambini sono ancora piccoli. Sapete, quest’anno la direzione della miniera ci hanno dato dei soldi per l’Epifania. Sino all’anno scorso ci davano giocattoli. A volte capitava che alle bambine spettassero dei soldatini e ai maschietti delle bambole. Efisio mi ha detto che è stato merito della Commissione Interna degli operai e del Direttore. Quello che viene da Milano. Non quello che c’è sempre a dare ordini. Si chiama Rolandi, mi pare. Un brav’uomo. Certo è diverso da molti suoi dipendenti che controllano gli operai solo per compilare biglietti di punizione. Con quei soldi ho potuto far confezionare le scarpe ai ragazzi, ho comprato un po’ di stoffa per vestiti e fatto costruire un armadietto per la cucina a maistu Srabadoi, il falegname. Meno male!… Da qualche giorno, però, Efisio è preoccupato. – aggiunge Maria.
Per gli operai di Montevecchio si avvicinano anni difficili. Non che manchi il lavoro. Anzi. Le notizie che arrivano dalla miniera, ora sommesse, ora più marcate, sulla situazione del personale, non sono incoraggianti. L’industrializzazione inizia ad entrare anche nel sottosuolo. All’uomo si sostituisce la macchina. Col passare dei giorni gli uomini diventano silenziosi. Le donne raddoppiano i loro sforzi per crescere, in qualche caso, lo stuolo di figli ed incoraggiare i mariti. Nel febbraio 1949 si rompe qualcosa. La società chiude le miniere. Gli operai ‘de sa mena’, così è chiamata la miniera, per poter tornare a lavoro, devono sottoscrivere il Patto Aziendale. Una regola imposta dall’azienda su come svolgere il lavoro e su come comportarsi dentro e fuori le miniere. Da quel momento in poi inizia per loro e per le famiglie un periodo d’instabilità. Vivono nell’attesa, cercano di scrutare il futuro per capire cosa porterà.
Negli spazi loro riservati, le donne sospirano e sperano, s’indignano e pregano, a volte imprecano, non si rassegnano. La fiera dignità, tutta sarda, le ha abituate ad aspettare, in silenzio, in un gioco di sguardi più eloquenti delle parole. Ogni giorno per la famiglia di qualcuna di loro si chiude una porta. Il marito è stato licenziato. Il motivo ufficiale è sempre lo stesso: scarso rendimento. Tutti sanno che questa affermazione ha una motivazione politica. Per l’azienda, se sei comunista o iscritto al sindacato, non puoi far parte del personale della miniera a meno che non rinunci all’attività politica e sindacale. Non di raro, poi, si consumano quelle piccole vendette personali che mettono in luce l’animo, non proprio nobile, di qualche compagno di lavoro, operaio, capo-squadra o sorvegliante. Le donne conoscono queste storie.
In una fredda mattina di febbraio anche Rina, Vitalia e Nora parlano di questi avvenimenti ‘cun sa motti in su coru’, con la morte nel cuore. Non vogliono subire quest’umiliazione. Abituate a soffrire, incoraggiano i loro uomini. Eugenio, Egidio e Gino devono tener duro, con la speranza che presto possano rialzare il capo.
- Sembrava tutto a posto. La società delle Miniere ha chiamato la polizia. Eugenio, quel lunedì non ha lavorato. Quando è arrivato a ‘su laccu de Cuccureba’, all’abbeveratoio di Cuccureba, all’uscita del paese, lo hanno fatto tornare indietro. – ricorda Rina.
Vitalia riassetta il grembiule sopra l’ampia gonna:
- Egidio quel lunedì è stato informato che le strade per le miniere erano bloccate dai Carabinieri e che i pullman che portano gli operai in miniera non erano passati. Era chiusa anche la strada di ‘Genna de Sciria’, quella che da Arbus conduce a Montevecchio. Avrebbe dovuto fare il secondo turno nella miniera di Sant’Antonio. In paese c’era fermento e non riuscivamo a capire perchè. Molta polizia per le strade. Sembravamo tornati ai tempi della guerra. Si era riversata molta gente in piazza, consiglieri comunali, sindacalisti, buontemponi, commercianti, donne, bambini e vecchi. Di fronte alla Camera del Lavoro la gente sollevava la voce, si disperava.
- Anche Gino – incalza Nora –non è potuto andare al lavoro quel giorno. La miniera si è chiusa anche per lui. Mi stavo stancando. Era a casa da una settimana. In quei giorni era sempre tra i piedi. Girava per casa: dal cortile all’orto, dall’orto al cortile. Non è mai uscito. Un giorno, però, su mia richiesta, è andato a chiedere informazioni. Aveva paura. Doveva incontrare compare Giovanni per avere notizie sul futuro delle miniere e sul lavoro. Compare Giovanni era sempre ben informato. Era Consigliere Comunale. Lo avevamo votato noi e tutta la famiglia. Il mio Gino sembrava un uccellino in gabbia. L’unico ad essere contento era Paolo. Con i suoi due anni cercava il padre per giocare e saltargli sulle ginocchia.
- Eugenio - aggiunge Rina – dopo qualche giorno, mi ha assicurato che forse hanno iniziato di nuovo ad assumere.
- Ora che ricordo, Rina mia, Egidio era tornato a casa dopo una riunione alla Camera del Lavoro. C’è sempre andato poco lì. Non è mai stato uno di quelli. L’avevano invitato i compagni per sentire. C’era un signore da Roma. Ha detto loro che lo sciopero che avevano fatto per la paga e le condizioni di lavoro era fallito. Dovevano rientrare subito se non volevano essere licenziati.
- Gino mi aveva detto le stesse cose. Ha aggiunto che avevano preparato un foglio. Quelli dell’Azienda. Se non lo avessero firmato li avrebbero licenziati. Ci siamo guardati in faccia, seduti accanto al caminetto. Abbiamo detto più volte che non era giusto. Cercato mille giustificazioni. Pregato e chiesto la grazia a Dio di sopportare. Gino non può permettersi di non lavorare. Perdere il lavoro proprio ora. Paolo, lo sapete, è piccolo. Io sono nuovamente incinta. Stiamo pagando la casa.
Il silenzio incombe sulle tre donne. Zia Maria, un’anziana proprietaria terriera, saluta:
- Ave Maria! – a passi svelti e brevi, avvolta nel suo scialle nero, il fazzoletto sulla bocca, si allontana.
- Grazia plena! – rispondono in coro le donne.
Il latrato di un cane riporta le donne ai loro tristi ragionamenti. Il paese pigramente si risveglia dalla notte invernale. Un carro, trainato da un giogo di buoi, percorre l’acciottolato diretto verso la campagna. Le lampade si accendono in successione alle finestre. E’ dalle quattro del mattino che le tre donne sono in piedi. Sono state alla macchina per impastare la farina a casa di zia Peppina. Il mugnaio ha dato loro della buona semola e l’impasto promette bene. La conca, avvolta in un lenzuolo di lino e in una coperta, contiene la pasta che deve lievitare per poi essere messo al forno a piccoli tocchi. Si salutano ad un crocicchio di strade mentre i primi bagliori dell’alba richiamano il giorno. Avvolte negli scialli neri, la bocca coperta dal fazzoletto, sistemano, con un movimento sicuro la conca ‘asuba de su tedibi’, sopra il cercine, e si avviano verso casa.
Gli anni passano senza che si rilevino cambiamenti. Ai primi di febbraio del 1961 c’è uno strano clima nel villaggio. Il paese è in fermento, un’eccitazione silenzioso, come se si aspettassero novità. Non c’è crocicchio, bettola, piazza, casa privata o altro luogo pubblico dove non si sussurri di quanto potrà succedere in miniera. I commercianti si lamentano per i mancati guadagni. Molte famiglie sono state costrette a contrarre debiti per far fronte anche alle più piccole necessità. L’aria che si respira è carica di rabbia e di apparente rassegnazione. Le giovani in età da marito vedono allontanarsi i loro sogni.
Alina, la figlia di Vitalia, commenta con Francesca e Fedela:
- Avevamo deciso di sposarci subito dopo Pasqua, con Antonio. Sicuramente non ce la faremo. Antonio non è più lui. La crisi della miniera lo ha costretto a fare cose che non avrebbe mai voluto fare. Firmando il Patto Aziendale ha preso impegni nei confronti della Direzione. Non può partecipare più a scioperi o altre azioni di protesta. In molti sono costretti ad iscriversi al Sindacato dell’Azienda se desiderano essere assunti o non vogliono essere licenziati. A lui non hanno chiesto niente. Per fortuna. Ieri sera era nervoso. Dopo un’accesa discussione, mi ha detto di non parlarne più nemmeno con le amiche. Le spie dell’Azienda sono da tutte le parti.
- Silvio mi ha detto le stesse cose. – aggiunge Francesca - Stanno lavorando di più e non possono lamentarsi. Devono fare come i soldati. Prima obbedire agli ordini di servizio, poi chiedere spiegazioni. Non devono parlare di politica; nemmeno sui camion che li portano a lavoro. Se li sorprendono a gruppetti chiedono cosa stiano tramando. Prima del Patto Aziendale erano circa seimila operai. Ora sono poco più di tremila.
- Babbo ha affermato che è iniziata la meccanizzazione. Ci capisco poco, però. Hanno portato nuove macchine. Lo avevano assunto come manovale a getto. Ora fa il locomotorista.
- dice Fedela.
- Stanno licenziando anche i muli in quella miniera. – dice Francesca – Ormai sono dodici anni. Dodici anni di sacrifici. Pare, però, che ci siano delle novità. Il Sindacato ha ripreso a lavorare sotto, sotto. Si riuniscono di nascosto. Stanno studiando cosa fare. E pensare che Silvio lavora ad economia, come dicono loro. Qualche mese è andato a lavorare 30 giorni. Anche le domeniche.
- Io so che si stanno riorganizzando. Assicurano che le Leghe dei Minatori di Arbus, Guspini, Villacidro e degli altri paesi, d’accordo con le Leghe Provinciali e Regionali, vogliono occupare i pozzi. - dice Fedela.
Il paese non si è mai abituato a questa situazione. Le donne continuano a sostenere in tutti i modi i loro uomini. Li invitano a non abbandonare la speranza. Vitalia è la più informata sui fatti. Il suo Egidio ha iniziato a seguire le vicende sindacali da vicino, come molti dei suoi compagni. Incontra Rina e Nora al mercato:
- I minatori si stanno riorganizzando e vogliono compiere un gesto clamoroso. Hanno stabilito un giorno e un’ora per agire. Molti di loro non sanno niente. dicono che bisogna essere riservati, altrimenti il piano va in fumo. L’Azienda ha orecchi e occhi in ogni luogo.
Non passano che pochi giorni. E’ il 17 febbraio del 1961. Il paese è in subbuglio. La notizia ha riempito l’aria di tensione e passa di bocca in bocca. Dalla Chiesa Parrocchiale, al Palazzo Comunale, alla Camera del Lavoro, alla piazza. “Hanno occupato le Miniere di Montevecchio”.
Rina, Vitalia, Nora e le altre donne, all’uscita dalla messa vespertina, si ritrovano a commentare.
- Gino mi ha raccontato com’è andata. Lo ha sentito al Comune. Gli operai, quando è scoccata l’ora ‘X’, invece di andare dove dovevano lavorare, sono scesi in miniera, nei luoghi stabiliti. Hanno bloccato le gabbie. Nessuno poteva più entrare o uscire.
- Chiedono all’Azienda tutto. Un nuovo contratto di lavoro. La riduzione delle ore settimanali. Più ferie. Una nuova Commissione Interna d’operai e non di ‘venduti’. Nuovi ambienti per cambiarsi. Tutto quello che non hanno avuto in questi dodici anni. – è Vitalia che parla.
- Stanno passando di casa in casa a chiedere la solidarietà dei cittadini. Sono passati anche da me. Ho detto loro che Eugenio è uno di loro. Alla Camera del Lavoro portano di tutto: coperte, alimenti, attrezzi da cucina, pane, denaro. Anche medicine. Si dice che qualcuno all’interno si sia sentito male. Eugenio mi ha sempre detto che l’aria in miniera non sempre è buona. Anche i commercianti si sono impegnati. Chi ha dato un sacco di semola, chi pasta, chi piatti. C’è di tutto. La solidarietà è grande. – dice Rosa.
I giorni si susseguono, paiono interminabili. L’attesa si fa sempre più pesante. Le trattative tra i Dirigenti Provinciali e Regionali del Sindacato e una Delegazione di minatori con l’Azienda è mediata dal Prefetto e si presenta subito difficile. Ma, dopo 17 giorni d’occupazione la vertenza si sblocca. L’azienda promette che cambierà il suo modo di trattare i minatori. E’ il giorno di Pasqua del 1961. La notizia che il Patto Aziendale è rotto si diffonde nei paesi ad una velocità senza pari. E’ festa. Gli operai escono dai pozzi occupati. Le piazze dei paesi si riempiono. Tutti vogliono salutare l’evento. Le donne, i bambini, gli anziani e quanti sono stati solidali fanno festa. Qualcuno ben informato dice che andrà anche il Vescovo a fare messa ai lavoratori che escono dai pozzi. E’ il giorno di Pasqua. Gesù è Risorto anche per loro. Gli operai hanno riacquistato la dignità che spetta ad ogni lavoratore. Anche la Chiesa è vicina al mondo del lavoro. I parroci dei villaggi del territorio sciolgono le campane.
Pare che mons. Antonio Tedde, il giovane Vescovo della diocesi di Ales- Terralba, abbia dato un contributo in denaro alle famiglie degli operai che erano in occupazione e a quelle che hanno avuto capifamiglia licenziati.
Una festa attesa e sperata. Ciascuno esprime la propria gioia a modo suo. Stranezze, grandi bevute, compiacimento, silenzio, attese. Tutto si fonde nella certezza che i tempi bui siano passati.
Vitalia è felice:
- I Sindacati hanno fatto la loro parte. I nostri uomini hanno combattuto. Il Prefetto di Cagliari ha mediato. Egidio è diventato rappresentante dei lavoratori sino alle elezioni della nuova Commissione Interna. Mi ha detto che si ricomincia dal rientro al lavoro anche di quelli licenziati. Poi si faranno le elezioni della nuova Commissione.
Nora interviene:
- Gino, tra le altre cose, dice che ridurranno le ore di lavoro settimanale da 48 a 40. Avrà finalmente il tempo di andare in campagna a seguire i terreni di babbo e il poco bestiame che gli è rimasto.
Alina esprime una gioia che pare incontenibile abbracciando le amiche:
- Finalmente ci sposeremo. Dobbiamo finire la casa. Speriamo che maistu Srabadoi, il falegname ci aspetti un po’ per i pagamenti. Deve prepararci prima le finestre e le porte. Almeno quelle esterne. Siamo stanchi di stare così.
- Per me e Silvio ci vorrà un po’ più di tempo. - aggiunge Francesca.
Fedela guarda le amiche:
- Chissà se anch’io un giorno potrò avere un uomo al mio fianco. A casa, però, le cose sono cambiate. Babbo era triste ed ora è tornato a sorridere. Mamma ha ripreso a cantare con la sua voce squillante. La Primavera con le sue rondini ed i nuovi germogli fa festa.

Sandro Renato Garau

Settembre 2003
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